OMELIE

Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”

Omelia di Mons. Ferretti del 31-08-2016

Omelia in preparazione alla Festa della Madonna di Ripalta - Cerignola - 31 agosto 2016

Ama il prossimo tuo come te stesso... E semplice, ma il dottore della legge non è soddisfatto. Vuole una risposta chiara. Vuole sapere chiaramente quali sono i suoi doveri. La parola prossimo significa alla lettera «qualcuno che mi sta”vicino». Più vicino è, e più doveri ho verso di lui. Certe persone erano così lontane da non essere affatto considerate come «prossimo» e non forestiero. Ero straniero e mi avete ospitato (Mt 25, 35). Ci troviamo, oggi, di fronte a flussi migratori che portano persone appartenenti a mondi fino a ieri sconosciuti ed estranei l’uno all’altro a vivere accanto. Fino a ieri questi mondi potevano tranquillamente ignorarsi, ma ora si trovano a vivere fianco a fianco. Questa è una situazione nuova, che esige conoscenza.
    Non è possibile ignorare lo straniero, o rifugiarsi nella tranquilla indifferenza verso l’altro, e mi riferisco in particolare, a colui che è radicalmente altro: per colore della pelle, per lingua, per tratti somatici, per cultura, per religione, etica, costumi, e potremmo continuare. È l’altro, radicalmente altro: era lontano e ora mi è vicino, mi è prossimo: ora tocca a me farmi suo prossimo. 
Il dottore della legge chiede: «Chi è il mio prossimo?». Alla fine della storia, Gesù pone una domanda diversa: «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Nella sua domanda, il dottore della legge si mette al centro: chi è il suo prossimo? Ma la parabola ribalta la domanda: adesso è l’uomo ferito che viene posto al centro. Chi si è fatto suo prossimo?
Di fronte allo straniero noi siamo come dei bambini che devono apprendere di nuovo una lingua per comunicare con chi viene da un mondo altro e sconosciuto. E allora si capisce come molto spesso la nostra reazione sia come quella dei bambini. Quante volte ci si avvicina a bambini anche non più piccolissimi ma, appena essi sentono che hanno di fronte un estraneo, un altro, uno sconosciuto, cominciano a piangere, a strillare, a rifugiarsi fra le braccia della madre o ad abbarbicarsi alla sua gonna. È la paura dello sconosciuto.
Cosa occorre per accogliere lo straniero come straniero? Credo che occorrerebbe dare spazio a una cultura dell’ospitalità e ricordare soprattutto la sofferenza: ricordare la propria sofferenza e discernere la sofferenza dell’altro. 
Qual è il primo atteggiamento di fronte allo straniero per pervenire ad una sua accoglienza?
Il primo movimento è la rinuncia ai pregiudizi. Devo cogliere e accogliere l’altro per come l’altro si presenta, evitando di proiettare su di lui le proprie etichette. Alla sospensione del giudizio segue poi l’atteggiamento fondamentale della simpatia. Si tratta dello sguardo sgombro da diffidenze e colmo, appunto, di simpatia, nei confronti delle stranezze della sua cultura, ai gesti del suo corpo, alle sue usanze sociali, ai riti religiosi, civili, ai sistemi di diagnosi e cura delle malattie, alla cucina e al modo di vestire…
Simpatia ed empatia conducono al dialogo, dal quale non si esce come si era prima.
Questo è il viaggio più radicale che ogni essere umano deve compiere: la liberazione dal proprio egoismo. E un viaggio che cominciamo da piccolissimi. Il neonato è il centro del suo piccolo mondo. Per lui crescere vuoi dire scoprire, lentamente, che esistono altre persone, e che queste persone non sono lì per soddisfare ogni suo desiderio. Dietro il seno che allatta c’è una madre. Si diventa pienamente umani quando si impara a cedere il centro ad altri. 
Per ciascuno di noi la più grande sfida nella vita è smettere di essere al centro del mondo. E una verità che conosco con la ragione, ma che è terribilmente difficile da raggiungere. E a me pare che sia particolarmente difficile nella società contemporanea. La modernità ha consacrato l’immagine dell’essere umano come essenzialmente solitario, staccato dagli altri, libero da obblighi, disimpegnato. Ovunque nel villaggio globale vediamo i segni del trionfo della «generazione dell’lo». Come si può imparare a lasciare il centro agli altri?Carissimi, a differenza del sacerdote e del levita che, visto l’uomo ferito, pas¬sano dall’altra parte della strada, il Samaritano accetta di incontrare l’uomo moribondo e di lasciarsi scomodare da lui. Credo che per leggere onestamente la parabola dobbiamo non tanto identificarci con il protagonista positivo, ma comprendere che di noi fanno parte anche il sacerdote e il levita e che i tre personaggi sono momenti di un unico faticoso movimento verso la vera compassione. Per arrivare a «fare compassione» (Lc 10,37; non «provare» o «sentire», ma mettere in pratica, far avvenire la compassione sul piano delle opere di misericordia.
La compassione è il sottrarre il dolore alla sua solitudine e dire al sofferente: «Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia». Perché a volte ci voltiamo dall’altra parte di fronte a un sofferente, perché non vogliamo incontrarlo?. La solitudine del sofferente ci fa paura, ci spaventa, ci turba: per incontrare il sofferente occorre incontrare anche la propria paura, incontrare in sé stessi la propria solitudine che spaventa. Allora potrà sorgere in noi la solidarietà. L’impotenza del sofferente, del morente (l’uomo percosso dai briganti è «mezzo morto»: Lc 10,30) ha la paradossale forza di risvegliare l’umanità dell’uomo che riconosce l’altro come un fratello proprio nel momento in cui non può essere strumento di alcun interesse. In questo, la compassione è un gesto di radicale umanità e gratuità.
Santa Maria, donna vestita di luce, fa scendere su di noi una benedizione di speranza e di consolazione su tutto ciò che rappresenta il male di vivere, che è la nostra indifferenza. Dona, Madre di misericordia, la tua benedizione sugli anni che passano, sulle tenerezze negate, sulle solitudini patite, sulla corruzione del corpo, soprattutto sulla lotta contro il nostro egoismo, che ci insidia ma non vincerà, perché il tuo amore è più forte della morte.
+ Vincenzo Pelvi