OMELIE

Dio dei viventi

Omelia di Mons. Ferretti del 06-11-2016

Insediamento di d. Antonio Padula come Amministratore parrocchiale di san Paolo in Foggia

La Parola di Dio di questa domenica pone l’attenzione sulla fede nella risurrezione dei morti. Fede che Cristo è risorto dai morti, fede che i morti risorgeranno in Cristo.
Gesù non dimostra con ragionamenti umani come sarà l’altra vita, ma afferma la risurrezione dichiarando che Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi, perché tutti vivono per Lui. Cosa significa? Il Signore, pienezza di vita, ha condiviso la sua stessa esistenza, generando in noi conoscenza, amore e servizio. 
Il Catechismo rispondeva bene a questa domanda: perché siamo stati creati? Per conoscerlo e amarlo in questa vita e servirlo nell’altra, in Paradiso. Siamo così indissolubilmente legati e apparteniamo a Gesù, nulla e nessuno potrà mai separarci da Lui. Sia che viviamo sia che moriamo siamo del Signore. Nell’amore divino ogni creatura non può che vivere per sempre. Cristo vive in me al presente e nei secoli. Dio non è dei morti, ma dei viventi. Chi dice Dio dice risurrezione e chi dice risurrezione dice Dio. La fede nella risurrezione, allora, non è dovuta al mio bisogno di esistere oltre la morte, ma racconta il volere di Dio di dare vita, di custodire la mia vita per l’eternità. Saremo, perciò, figli della risurrezione perché figli di Dio e dobbiamo vivere da figli sapendo che ogni giorno affrontiamo tante forme di morte che, vissute nella logica del dono, sono passaggi alla risurrezione. Viviamo già al presente da figli della risurrezione, testimoniando quei valori che sono l’amore, la gioia, la pace, l’unione con Dio e con i fedeli.
Questi valori definitivi, animati dalla carità, dobbiamo proporre nel vissuto quotidiano.
La carità, d'altronde, ce l’hai insegnata Gesù, ci fa morire per gli altri. Notate: morire. Non “essere pronti a morire”. Ma proprio: morire. Morire spiritualmente, rinnegare noi stessi per “vivere gli altri”. O anche morire fisicamente, se occorre. 
A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita, per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa Terra ha bisogno di noi? Il nostro passaggio sulla Terra non può mai essere una sorta di turismo, può essere solo un “prendersi cura”, perché abbia un senso e ci sia gioia nell’alzarsi ogni mattina.
Nella logica del morire a noi stessi, impariamo a dire non più che dobbiamo amare, ma che possiamo amare.
Ripercorriamo la strada della prossimità, che, esigendo tempi lunghi e, pazienza sconfinata, non vede ingorghi o grandi competizioni: è lo spazio per la nostra impronta evangelica.
 Le comunità parrocchiali sembrano essere seriamente appesantite e gravemente danneggiate dalle manifestazioni di individualismo, egoismo, squilibrio. Libertà e bene comune, invece, esigono che ci si dedichi non episodicamente a costruire legami. Solo relazioni significative e salde tra noi fedeli permettono alla parrocchia di progettare il futuro pastorale evitando il delirio dell’onnipotenza e autoreferenzialità. Rendiamoci conto che le cose che succedono, anche le più dure e faticose, possono aprire orizzonti di speranza. La soluzione dei problemi, non può stare solo nei soldi che non bastano, nelle consuetudini, che non garantiscono più, ma nel coraggio di proporre, escogitare, nuove potenzialità, delle opportunità che infondono fiducia. Non deve, la parrocchia, esibire fiori all’occhiello, ma le sue spine nel fianco che portano i segni delle contraddizioni. Dobbiamo capire che un ragazzo nella cui famiglia è arrivata la lettera di licenziamento del genitore, non è più lo stesso ragazzo in parrocchia. Una madre depressa, che non sa più perché alzarsi al mattino, fa fatica a gestire un impegno parrocchiale. 
Questa parrocchia si lasci portare dal soffio potente dello Spirito, che a volte è inquietante, sia la vostra una comunità libera e aperta alle sfide del presente. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa, il parroco incontri la gente lungo le strade, nelle famiglie, nei luoghi della sofferenza e della gioia. Sappia respirare la cultura della vicinanza per vivere con i suoi fedeli un umanesimo popolare, umile, generoso e lieto. Un prete che perde il contatto con il povero fedele, ne perde in umanità. Noi sacerdoti, perciò, guardiamo come in uno specchio i tratti del volto di Gesù e i suoi gesti, sperimentando la letizia e la semplicità di cuore di tutto il popolo.

Che la Vergine santa protegga questa comunità da ogni surrogato di potere e di immagine, insegni a seminare senza raccogliere, a consolare senza temere, a dare senza misurare, a fare solo quello che il Figlio dirà.