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Secondo appuntamento della “Lectura patrum fodiensis”

Nella relazione del prof. Ugenti il senso del martirio e la sua evoluzione

(pubblicato il 26-04-2011)
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È irrorata di sangue la strada della cristianità. Ad eccezione di Giovanni, torturato ed esiliato, tutti gli apostoli subirono il martirio per attestare col sacrifico della vita la fede in Cristo. Durante le persecuzioni dei primi secoli della Chiesa si contano a diverse centinaia le vittime, tra cui nomi illustri e persone umili che accettarono l’estremo sacrificio per amore di Cristo.


Gli “Atti” e le “Passioni” dei martiri hanno ancora oggi una duplice funzione, perché consentono per un verso la ricostruzione storica dei primi secoli della cristianità e per altro verso ci fanno rivivere una spiritualità rigorosa che dovrebbe ridestare la nostra fede intorpidita dalla routine. Alcune narrazioni coinvolgono per i sentimenti e la potenza lirica delle immagini e suscitano riflessioni anche in chi si ritiene corazzato contro le emozioni.


Ce ne parla il prof. Valerio Ugenti dell’Università di Lecce, nel secondo incontro del ciclo di Letteratura cristiana delle origini, a cura dei professori Marin e Infante.


Agostino nel De civitate Dei annovera dieci persecuzioni, da Nerone a Massimiano, ma quel numero più che una precisazione storica, si ricollega simbolicamente alle dieci piaghe dell’antico Egitto al tempo di Mosè. Egli scrive quando il cristianesimo è ormai religio licita, ma ammonisce che le persecuzioni possono ritornare e, leggendo le ultime cronache, ci avvediamo che mai profezia è stata più appropriata.


Ignazio di Antiochia


Tra le letture edificanti di questa età cosiddetta sub-apostolica della Chiesa, rientrano quelle di Ignazio di Antiochia, città che si segnalava per la vivacità dei traffici commerciali e per la dialettica religiosa tra Pietro e Paolo. Il primo impegnava al rispetto dell’Antico Testamento, Paolo poneva l’accento sull’insegnamento di Cristo.


Anche sul tema dell’interpretazione della figura di Cristo c’era dibattito, perché i giudei-cristiani sostenevano la natura umana di Gesù, il più grande dei profeti, che solo dopo fu investito di dignità divina. I docetisti (dal greco dokêin, sembrare) escludevano invece la natura carnale, sostenendo che, permanendo la natura divina del Cristo, le sue sembianze umane e quindi la sofferenza e la morte erano solo apparenza.


Ignazio polemizza con entrambe le posizioni e il suo pensiero emerge dalle sette lettere elencate da Eusebio e che, intorno al 110, scrive nei luoghi di sosta (Smirne e Troade), durante la deportazione a Roma, dove sarà martirizzato. Egli raccomanda di non lasciarsi ingannare da insegnamenti erronei, ma, soprattutto, si sofferma sulla organizzazione della Chiesa e sul martirio.


La comunità deve essere unita – come scrive agli abitanti di Magnesia – e a questo fine è utile una costituzione di tipo monarchico, con rigorosa gerarchia vescovo-presbiteri-diaconi. È questo l’orientamento paolino, che contrasta col modello giovanneo che prevede una comunità retta da un collegio presbiteriale. Nella lettera ai Romani non c’è menzione del vescovo, segno probabile della persistenza della diatriba organizzativa vescovo-presbiterio.


Ma questa lettera  è notevole  anche perché introduce il tema del martirio. Ricordiamo che nei primi secoli il martire “perfetto” era quello che donava la sua vita per Cristo, ma c’era anche il martirio “incoativo” (dal tardo latino incohativum, che indica l’inizio di un’azione), che era attribuito a chi confessava la fede in tribunale o subiva il carcere. Tertulliano (160 ca-220 ca) li chiamava anche martiri “designati”, perché dalla confessione era fatale che scaturisse la condanna. Veniva infine definito martire anche chi viveva secondo i precetti del Signore.


Il martire “perfetto”


Ignazio è il martire “perfetto”, perché ritiene che attraverso il martirio si diventa veri discepoli di Cristo. Lo scrive nella lettera ai Romani, raccomandando loro di non intervenire per salvargli la vita, perché egli anela a ricongiungersi al Signore. Già scrivendo agli Efesini aveva espresso la speranza di ottenere di combattere a Roma con le belve, ma ora usa espressioni più incisive: “Sono frumento di Dio e vengo macinato da zanne ferine per essere trovato pane puro” (Rom. 4,1).


Più oltre l’ardore per il martirio stravolge il senso stesso delle parole. Le catene diventano “perle spirituali”, la morte alla vita terrena è un parto, una nascita: “Abbiate pietà di me fratelli! Non mi impedite di vivere, non vogliate che io muoia” (Rom 6,2).


Per l’imitatio Christi ambisce a farsi lacerare dalle belve, mutilare le membra, triturare il corpo. Si comprende allora la lotta contro il docetismo, ma qui la descrizione procede con gusto quasi masochista. C’è ostentazione? Gli studiosi esprimono valutazioni diverse. È certo – osserva il relatore – che le torture sono reali e che i racconti sono diretti e non rielaborati successivamente da altri.


E sono racconti che indulgono anche ad una terminologia militaresca, tanto che il battesimo diventa uno scudo, la fede un elmo, l’amore una lancia, la pazienza un’armatura. Anche per questo aspetto Ignazio rielabora il pensiero di san Paolo, che richiama ad una Chiesa militante che deve farsi strada simbolicamente con scudo, corazza e frecce nella realtà ostile del tempo (Efesini 6,13). Tertulliano avrebbe poi assimilato il carcere ai campi di addestramento per i soldati o alle palestre dove gli atleti si preparano alla gara.


Ignazio introduce questi temi scrivendo a Policarpo, vescovo di Smirne, l’unica lettera non diretta ad una comunità. Quella di Policarpo è una figura diversa, più mite e con la sua prosa la stessa idea di martirio si completa, perché il martire non solo muore come e per il Cristo, ma con il Cristo. Finisce pugnalato a bruciato il 23 febbraio 155; il racconto della sua passione, simile a quella di Gesù, è scritto da Marcione e ci mostra ulteriori stati d’animo, per cui il martire si estranea dal proprio corpo e non avverte il tormento del supplizio, perché Gesù non solo è al suo fianco, ma soffre nel corpo del martire stesso.


Il prof. Ugenti aveva esordito prospettando un percorso guidato attraverso i testi, ma la sua relazione è tutt’altro che una semplice lettura, perché introduce i primi fermenti dottrinari, sfata la vulgata del cristianesimo diffuso solo tra gli umili, sottolinea in Ignazio l’ “inventore” di nuove espressioni (cristiani, chiesa cattolica), illustra l’evoluzione del concetto di martire, osservando infine come alla polarizzazione ideale delle posizioni cristiani/pagani corrisponda in realtà una commistione di fatto, perché le diverse fedi convivevano nello stesso ambiente sociale e anche nella stessa famiglia.


Ci pare pertanto illuminante l’espressione con cui chiude un suo studio: “Ogni fiore che nasce è un miracolo, ma non sempre ce ne accorgiamo se non c’è qualcuno che ci apre gli occhi”. Si dice che gli assenti hanno torto. Questa volta ancora di più. Sono probabilmente coloro a cui Oscar Wilde riserva il suo sarcasmo: “Ci sono persone che sanno tutto e purtroppo è tutto quello che sanno”.


Vito Procaccini