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Parola della Domenica - II Domenica del Tempo di Pasqua

Riflessioni a cura di padre Valter Arrigoni, monaco diocesano

(pubblicato il 01-05-2011)
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È passata anche questa Pasqua 2011! Per me la cinquantatreesima. Eppure mi chiedo ancora una volta, un anno dopo l’altro, da che cosa sono risorto. Per poter risorgere bisogna prima essere morti! Occorre che la pietra che chiude il sepolcro si trasformi dall’essere la  pietra che rinchiude un morto ad essere il  cuore vivo e palpitante di Dio che accoglie la  vita, che ridona la vita. Il cammino della Quaresima che ci prepara anno dopo anno, passo dopo passo alla Pasqua si fonda da sempre nella spiritualità della Chiesa su tre colonne fondamentali: digiuno, preghiera e carità. Il digiuno non significa soltanto il non mangiare, significa sacrificare qualcosa alla quale si è particolarmente legati, che ci tiene prigionieri. Sacrificare non è soffrire ma rendere sacro un aspetto della nostra esistenza. Quasi come ridare a Dio ciò che gli appartiene e che gli abbiamo rubato. Allora digiunare è diventare liberi da ciò che ci fa prigionieri, che ha preso il posto di Dio nella nostra vita, che ha usurpato il primo posto. La preghiera è il tempo ed il luogo della verità e della chiarezza su noi stessi e sulla nostra vita. La preghiera vera, quella che ci insegna Gesù è chiedere a Dio, al Padre, “sia fatta la tua volontà”. Solo nel realizzare la volontà di Dio troviamo la vera felicità che consiste nel senso della vita. Non è data a nessuno, neppure a coloro che ci appaiono felici nel cinema o in televisione, a nessuno per quanto possa pagarsi la gente ed avere il potere economico o politico, una vita senza dolore. Una preghiera suggerita dopo l’assoluzione nella confessione recita “il dolore che è inevitabile nella vita”. La gioia vera, la felicità profonda, intangibile, quella che nessun  ladro ci potrà mai rubare è nel senso della vita. Una vita significativa. Una vita utile, vissuta intensamente anche se finisce con la morte ingiusta come nel caso di Vittorio Arrigoni. La preghiera allora non si chiude nello stretto recinto delle parole ma spazia nell’orizzonte infinito di Dio. Nella preghiera entriamo nello spazio di Dio, facciamo entrare nel nostro cuore il respiro di Dio, ci inebriamo di Lui, Lui diventa l’ossigeno della nostra vita. Pregare non è tanto chiedere a Dio di adeguarsi alle nostre esigenze, ai nostri desideri ma fare la sua volontà conosciuta ed amata. L’ultima parola, la terza colonna del cammino quaresimale è la carità. Niente nella vita di fede finisce con noi stessi, finisce dentro di noi ma tutto è per gli altri, per l’altro sia esso Dio stesso o un fratello. Nell’incarnazione, ma ancor prima in tutto l’Antico Testamento, Dio si identifica con l’uomo e con l’ultimo degli uomini. Con il debole, lo straniero, l’orfano, la vedova, il malato, il carcerato. La carità non consiste tanto nel dare qualcosa ma nel condividere il cuore, la propria vita. Madre Teresa diceva che se  dopo avere dato qualcosa non ricordiamo neppure il colore degli occhi di chi abbiamo aiutato non abbiamo fatto la carità vera. Mi sembra che in questo periodo di grande crisi economica nel quale ognuno cerca di salvare se stesso ci siamo dimenticati di Gesù e del suo insegnamento. Cerchiamo di liberarci dei fratelli stranieri, cerchiamo di eliminare ogni bisogno che ci viene posto davanti ed al quale siamo chiamati a rispondere. Sembra che abbiamo perso la fede, la carità, la speranza. Sembra che non ci sia più neppure un politico cristiano ma solo persone che in cambio del consenso, di qualche voto che permetta loro di guadagnare cifre vergognose, hanno venduto anima e corpo. Cosa significa allora quest’anno fare Pasqua? Forse potrebbe essere la nostra Pasqua di Risurrezione, la Pasqua nella quale la pietra pesante rotolata davanti alla tomba del Cristo morto diventa il cuore palpitante e vivo di Cristo nella nostra vita. Forse inviteremo alla mensa di casa nostra qualche fratello straniero riconoscendo in lui lo stesso Gesù Cristo come accadde ai discepoli di Emmaus. Gesù è risorto! Questo annuncio che sa di follia è risuonato in tutte le chiese del mondo. Ho confessato tanto ed ho ascoltato tanto dolore, morte, disperazione. Certe volte mi accorgo che l’unica cosa che posso fare come prete e come uomo di Dio, monaco, è ascoltare l’umanità che viene da me per sentire una parola di conforto, per avere certezze che la vita ha tolto o allontanato. Ma non ci sono parole! Certe volte c’è solo il silenzio di Dio. Avere fede è anche avere il coraggio di accettare questo silenzio. Non chiedere altro a Dio che di esserci vicini e di farci certi della su presenza. Il Figlio morto è risorto. Il ladro crocifisso accanto a lui ha sperimentato la vita che vince, la risurrezione che sconfigge la morte. Il perdono che vince i peccato. Siamo qui dopo la Pasqua a far memoria di questo mistero. A lasciarci pervadere dalla fede, dalla certezza che Dio ci ama al punto da avere condiviso con noi tutto l’umano. Risorto vuole dire che prima era morto. Risorto vuole dire che prima aveva sofferto fino in fondo. Risorto con noi, per noi perché anche noi possiamo risorgere con lui. L’ultima parola della  nostra vita non è la morte ma la vita definitiva, eterna, nella pace e nella gioia, nella luce e  nell’amore. In Dio. 


Padre Valter Arrigoni


Monaco diocesano