OMELIE

I bambini … la speranza del mondo

Omelia di Mons. Ferretti del 04-02-2017

Giornata della vita 2017

La comprensione dei fenomeni umani circa “le fonti dell’esisten­za” esige un supplemento d’amore. In questa ottica proporrei una in­terpretazione della pericope sull’adultera, contenuta nel Vangelo di Giovanni, come eloquente rapporto amore-vita. Gesù entra nella situazione concreta e storica della donna, situa­zione che è gravata dall’eredità del peccato. Le dice: “Non peccare più” ma prima egli provoca la consapevolezza del peccato negli uomini che l’accusano per lapidarla, manifestando così profonda capa­cità di vedere secondo verità le coscienze e le opere umane. Gesù sem­bra dire agli accusatori: questa donna con tutto il suo peccato non è forse anche, e prima di tutto, una conferma delle vostre trasgressioni, della vostra ingiustizia, dei vostri abusi? Una donna viene lasciata sola, è esposta all’opinione pubblica con il suo peccato, mentre dietro questo peccato chi si cela? Quante volte, in modo simile, la donna paga per il proprio peccato, ma paga da sola! Quante volte la donna rimane abbandonata con la sua maternità, quando l’uomo, padre del bambino, non vuole accettar­ne la responsabilità? E accanto alle numerose madri delle no­stre società, bisogna prendere in considerazione anche tutte quelle che molto spesso, subendo varie pressioni si “liberano” del bambino pri­ma della nascita. “Si liberano”: ma a quale prezzo? L’opinione pubblica tenta in diversi modi di annullare il male di questo peccato. Normalmente, però, la coscienza della donna non dimentica di aver tolto la vita al proprio figlio, perché non riesce a cancellare la disponibilità ad accogliere la vita, inscritta nel suo ethos col mistero del “prin­cipio”. L’uomo fu creato maschio e femmina, e la donna gli fu affidata con la sua diversità femminile ed anche con la sua potenziale materni­tà; anche l’uomo, allora, fu affidato dal Creatore alla donna. Furono reciprocamente affidati l’uno all’altro come persone fatte ad immagine e somiglianza di Dio.
I bambini sono il futuro
La scelta deliberata di privare un essere umano della sua vita è sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai dirsi lecita né come fine, né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa e contraddice le fondamentali virtù della giustizia e della carità. Niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammala­to incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabi­lità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Nel diritto alla vita, ciascun essere umano è asso­lutamente uguale a tutti gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni au­tentico rapporto sociale che, per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non come oggetto di cui disporre.
Il grido dei piccoli innocenti
Fra tutti i delitti che l’uomo può compiere contro la vita, l’aborto procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente gra­ve e deprecabile. Ma, nella coscienza di molti, la percezione del­la sua gravità è andata progressivamente oscurandosi soprattutto per l’odierna cultura che nega valore alla vita in quanto tale e non aiuta ad accettarne la “condizione umana”, perché fortemente sbilanciata verso modelli di benessere, verso l’avere piuttosto che verso l’essere. Purtroppo, l’accettazione dell’aborto nella mentalità, nel costume e nella stessa legge è segno eloquente di una crisi del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione dell’autoinganno. Proprio nel caso dell’aborto, si registra la diffusione di una termi­nologia ambigua, come quella di “interruzione della gravidanza”, che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell’opi­nione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sinto­mo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose: l’aborto procurato è l’uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita. La gravità morale dell’aborto procurato appare in tutta la sua veri­tà se si riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene sop­presso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere consi­derato un aggressore. È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neo­nato. È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo. Eppure, talvolta, è proprio la mamma a decider­ne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla. È vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre ca­rattere drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia. Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare che sarebbe meglio che non nascesse. Tuttavia, queste e altre simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano. Ascoltiamo il grido nascosto dei piccoli innocenti cui è preclusa la luce di questo mondo. 
La cooperazione nell’aborto
A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all’aborto, ma anche quando indirettamente favorisce tale sua decisio­ne perché la lascia sola di fronte ai problemi della gravidanza. Né van­no taciute e sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio con­testo familiare e dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pres­sioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta a cedere all’aborto. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuove­re la vita. Ma la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno pro­mosso e approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, anche gli amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per prati­care gli aborti. Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessua­le e disistima della maternità, sia coloro che dovrebbero assicurare va­lide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell’aborto nel mondo. In tal senso l’aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente socia­le: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Ci stiamo, forse, tutti indebitando contro la Vita. Per questo sia­mo tristi, inquieti, confusi e disperati.
Riconoscere la vita
Riconoscere la vita è credere fermamente nella possibilità che ognuno trovi la propria realizzazione, la propria strada di gioia e di soddisfazioni; è schierarsi a favore di chi non ha mani e non ha voce per permettere a tutti una dignitosa esistenza; è muoversi in cordata con gli altri perseguendo il bene di tutti come il proprio, perché il Si­gnore comanda di amare l’altro come se stessi. Riconoscere la vita è rispettare le diversità, perché ognuno concretizzi le proprie aspirazio­ni. Riconoscere la vita è appoggiare la testa sulla spalla di chi la vita l’ha già vissuta e si trova alla fine del proprio cammino; è imbastire la propria vita con le esperienze di un ricordo edificante, di una gioia sperimentata, di un dolore condiviso; è fare memoria della vita passata perché la vita futura sia più ricca e più gioiosa. Riconoscere la vita insegna ad essere riconoscenti a chi ce l’ha data, perché la riconoscenza è il primo e fondamentale segno che sa contemplare la bellezza e il valore dell’esistenza.