OMELIE

Rivestiti di luce

Omelia di Mons. Ferretti del 02-02-2018

Omelia nella festa della Presentazione del Signore, Giornata dei consacrati
Carissime persone consacrate,
celebriamo la festa della luce. I nostri occhi ancora stasera hanno visto – come Simeone – la Salvezza, preparata davanti a tutti i popoli, carne nel grembo di Maria, luce per illuminare le genti.
La luce non è un calore o un fascio di emozioni che avvolge; è una Persona, che illumina ogni uomo: “Io sono la luce del mondo; chi segue me non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).
E come le candele, che abbiamo portato tra le mani, la luce la ricevono da una sorgente luminosa e, a loro volta, fanno luce, rischiarano il vissuto quotidiano, così ogni persona consacrata riceve la luce di Cristo, viene assimilata alla sua identità ed è chiamata a “dare” agli altri questa sua luce: “voi siete la luce del mondo […] risplenda la vostra luce davanti agli uomini” (cf. Mt 5,14.16).
La vita consacrata è illuminata e illuminante; illuminata dall’assimilazione alla vita di Gesù, che affascina e ci contagia e illuminante per la testimonianza della nostra fede povera, per la speranza obbediente e per la nostra carità casta.
Care sorelle e fratelli,
non basta apparire come persone consacrate, bisogna esserlo. In noi non vi sia la somiglianza a Gesù, ma la verità di Gesù. Il Signore, infatti, potrebbe non abitare in noi con la sua luce, se abbiamo chiuso la porta del cuore alla sua presenza. Se tu non apri gli occhi come potrai godere dei raggi del sole?
Nel Vangelo ascoltato, un vecchio abbracciando il Bambino ha creduto e ha sperato in un futuro ricco di vitalità. Simeone rappresenta ciascuno di noi. Nonostante le abitudini, le paure, i timori, le invidie, le preoccupazioni della vita consacrata, facciamo spazio alle meraviglie di Dio, accogliendo e lasciandoci risvegliare dal grido del profeta: «Àlzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce» (Is 60,1).
Vita consacrata, se sei come Elia (1Re 19,5), desideroso di morire, àlzati e cammina; se sei come il salmista (Sal 24,7), con lo sguardo verso il Monte del Signore, alza la fronte e lascia entrare il Re della gloria; se sei l’amata del Cantico (Ct 2,10), cercata dallo Sposo, àlzati e va’ presto da Lui; se sei Giuseppe (Mt 2,20), àlzati, prendi tra le braccia il Bambino e proteggilo; se sei malato, cieco, deluso, agonizzante, àlzati e lasciati guarire (Mc 10,49); se sei disorientato e demotivato (Gv 5,8), àlzati, prendi la tua fragilità e torna ad animare la tua comunità.
Tutti corriamo il rischio di vivere la consacrazione presi da mille preoccupazioni, talvolta anche legittime, ma dimenticando di dirlo e di mostrarlo al Signore. Così, poco per volta, il legame di appartenenza diventa un’abitudine, in alcuni momenti un peso. Avviene, anche di frequente, nel cuore delle persone consacrate al servizio del Signore, magari anche con molti sacrifici e rinunce, ci si “lascia andare” e nei rapporti interpersonali tende a prevalere l’ira, la sfiducia, il pregiudizio e la preghiera diventa più un desiderio, anche se sincero, o una nostalgia, che una realtà vissuta. Una relazione non nutrita lascia, così, il posto all’accidia, alla rilassatezza, a quella mancanza di autocontrollo che rischia di rendere buia una forma di esistenza, chiamata, invece, in modo del tutto particolare, a essere luce del mondo (cfr. Mt 5,13-14). In tale circostanza spesso si affaccia una visione eccessivamente ottimistica e permissiva degli affetti, qualche volta proposta e sostenuta come strategia vincente, che getta le persone deboli in un’ulteriore confusione di sentimenti non più controllabili.
Il rischio è che il nostro io, bisognoso di supporti e conferme, trovi nel ruolo una dimostrazione del proprio valore, dell’importanza agli occhi degli altri. Anche nei consacrati si innesca un atteggiamento di continua ricerca di simboli di potere, in cui ricevere una silenziosa conferma della propria bravura. Siamo tentati di vivere la consacrazione come un diritto, in cui gli altri non possono interferire, su cui non è loro permesso esprimere opinioni, proporre suggerimenti. Tutto diventa rigidamente organizzato, intoccabile, piatto, sempre uguale, non aperto alle sante novità di Dio. E così non ci apriamo all’altro, ma cerchiamo l’immagine, il potere, nell’illusione di riuscire a proteggersi dalla superiorità che temiamo di cogliere nell’altro o dai cambiamenti introdotti dalla vita. Ci affanniamo a possedere dei beni, delle sicurezze che invogliano a individuare strategie, manipolare, creare alleanze per raggiungere i propri scopi, nell’illusione di conseguire una pace che, con questi mezzi, non si riuscirà mai a trovare. Ecco la necessità di trattenere accanto a sé le persone che ci permettono la furbizia e l’egoismo non di un rapporto di sana amicizia, ma un legame di uso, che trasforma tanti sogni in bisogni. A nessuno sfugge di essere segnato da tante fragilità umane. Cosa fare? Con l’aiuto della grazia impegnarsi a non emarginare le debolezze ma approfittare della loro invasività nel nostro immaginario, vincerne la paura, e accoglierle come esercizio di santità. La vita teologale chiede di credere l’incredibile: la risurrezione del corpo morto; chiede di sperare l’insperabile come amare il corpo non amabile, il corpo sfigurato che non ha apparenza né bellezza (cfr. Is 53,2), il corpo del nemico. 
Impariamo a servire Dio considerando la fragilità come dono. Lasciamo che ritorni continuamente agli occhi della nostra mente Cristo, che ha pianto, ha sofferto sulla croce, è stato insultato, è morto di fragilità. La bontà disarmante di Gesù nei confronti di tutti, anche di coloro che gli erano ostili, rivela la sua interiorità di figlio prediletto del Padre, la sua intesa, intessuta di fiducia e di abbandono, con Colui da cui si sentiva protetto, sostenuto, difeso, amato.
Dall’Eucaristia di stasera possiamo attingere ogni virtù. Vogliamo la fede, fondamento della vita cristiana? Questo è il mistero della fede e possiamo ripetere: «Signore accresci la nostra fede» (Lc 17,5). Vogliamo l’umiltà, che è l’inizio della perfezione? Accostiamoci al Dio umiliato e crocifisso, vivente in un pugno di farina, e attingeremo l’umiltà. Vogliamo la purezza, carisma della nostra storia di vita? Il corpo di Gesù è il corpo del Vergine, frumento che genera i vergini; è la carne santa che fa perdere il gusto dell’insipienza alla nostra carne. Vogliamo la forza per resistere alle tentazioni? Questo è il pane dei forti. Vogliamo il conforto nel dolore? Nutriti da quel cibo e inebriati da quel calice, non sentiamo alcuna sofferenza. Vogliamo la carità, l’amore a Dio e agli uomini?
La nostra consacrazione non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino. Se sapremo portare, come Maria, tra le braccia Gesù, sarà Lui a portarci nello splendore del Regno del Padre.