OMELIE

Pasqua: la speranza oltre l’indifferenza

Omelia di Mons. Ferretti del 27-03-2018


Incontro in preparazione alla Santa Pasqua - Facoltà di Agraria - Foggia, 27/03/2018

Cari amici,
quanta tristezza scorgiamo sui volti che incontriamo. Quante lacrime versate quotidianamente: una diversa dall’altra come gocce che formano un oceano di dolore, che invoca attenzione, compassione, consolazione. Un tempo bello il nostro ma contagiato da evidenti contraddizioni di bene e male, positivo e negativo. 
Mai tanta scienza e tanta ignoranza come oggi. Abbiamo scoperto i segreti dell’atomo, ma non riusciamo a conoscere la verità di un evento. Mai tanta ricchezza e tanta miseria. Più cresce la ricchezza nelle mani di pochi, più la miseria e la fame aumentano in maniera irrefrenabile. Mai tanta organizzazione sociale e tanta solitudine; tanti divertimenti e tanta disperazione. Si ha tutto e non si ha niente. Foggia sembra una città senza gioia dove ciascuno cerca la propria felicità a prescindere da quella degli altri, considerati vicini ma non fratelli con uguale dignità.
Eppure quanti valori belli nelle nostre coscienze, quanta onestà e sacrifici nelle famiglie, quante iniziative di carità. Questi germi positivi stentano a visibilizzarsi e crescere per il clima di diffidenza, che frantuma le relazioni interpersonali e sciupa l’opportunità di sostenersi a vicenda, annientando la capacità delle persone di occuparsi degli altri.
Chi di noi nei momenti di tristezza, nella sofferenza della malattia, nell’angoscia delle prove, nello smarrimento della paura e nel dolore del lutto non avverte forte il bisogno di qualcuno che stia accanto, provi compassione, pianga con noi e ci coinvolga nella tenerezza silenziosa del suo sguardo? La nostra storia è piena di ferite. Se voltiamo le spalle dinanzi ad esse, non abbiamo diritto a chiamare Dio. Non ho il diritto di chiamare Dio Padre, se non prendo sul serio il dolore del mio prossimo. La fede che chiude gli occhi sulla sofferenza delle persone non è che una pia illusione. Solo una fede aperta ai poveri, ai malati, ai deboli, ai senza tetto e agli emarginati è autentica e credibile. Siamo chiamati, infatti, a toccare le ferite di Cristo nelle ferite di chi abbiamo vicino.         
Purtroppo, tendenzialmente ci rifiutiamo di accostare le ferite, perché ci spaventa la nostra debolezza, la vulnerabilità della vita, la consapevolezza di essere mortali. Affascina, invece, l’idea che, se abbiamo molti soldi, case e beni, una buona assicurazione; se siamo al sicuro nelle nostre abitazioni, possediamo l’ultimo modello di automobile e frequentiamo una buona palestra, possiamo essere immortali.   
Chiediamoci: l’altro è pericoloso o è in pericolo e chiede aiuto? In realtà la capacità di soffrire per il dolore degli altri sta subendo un rapido declino. La civiltà dei consumi e del benessere ci spinge a dimenticare una delle verità più profonde e antiche: che nella vita umana ci sono molte buone sofferenze, come molti cattivi piaceri. E, così, la pubblicità in pochi secondi riesce a far dimenticare infedeltà e fallimenti familiari, corruzione e sfruttamento, la mancanza di casa e di lavoro, la distruzione dell’ambiente, lo stesso terrorismo e la guerra “a pezzi”, come in Siria e in tutto il Medio Oriente.
Di fronte alla passione che attraversa i nostri giorni avvertiamo sì un certo malessere, come un sentire naturale. Ciò non serve se non entriamo in contatto con chi soffre, muovendoci e prendendoci cura.     
Dinanzi alle criticità, le più svariate, la mente si riempie di domande, ma le risposte non arrivano, abbiamo bisogno di risvegliare le ragioni del cuore, le uniche in grado di farci comprendere il mistero che circonda ogni solitudine. Regaliamo il sorriso a chi soffre, offriamo l’ascolto a chi desidera comunicare le sue pene, promettiamo di essere presenti a chi è nel bisogno.
Non dobbiamo, perciò, aver paura delle sfide provocate dalla società globalizzata, né rinchiuderci nei confini gretti di un mortificante disimpegno. Dal momento che conosciamo i nostri difetti, desideriamo rovesciare le opinioni correnti e aprirci a orizzonti positivi di una nuova creatività.
Non cresceremo se non insieme, con un instancabile sforzo comune, con l’assunzione più netta e decisa di responsabilità di fronte all’inquietante malessere sociale che respiriamo.
Contro i condizionamenti perversi della criminalità, la diffusione di comportamenti asociali, la nuova aggravata incidenza delle “illegalità” diffuse, l’impoverimento del potenziale umano giovanile costretto a emigrare e investire altrove le proprie attese e capacità, il nostro grido si fa più eloquente.
Riprendiamoci il coraggio della speranza, perché si ossigeni di stupore e futuro l’esistenza, meravigliosa agli occhi di Dio. Ogni uomo è mio fratello da accogliere nel profondo del cuore, mettendomi assieme in cammino nella ricerca di una giustizia più grande, un rispetto più autentico e uno sviluppo più solidale.
Lottiamo contro il nemico della speranza, che è quella superficialità e diffidenza che caratterizza tante relazioni interpersonali, avventurandoci in una cultura dell’incontro, a volte carico di incognite. Fermarsi presso qualcuno per conoscerlo, ascoltarlo, scoprire come vive, comporta molto tempo e pazienza, osservazione e condivisione. E oggi, tutto questo è messo in discussione dalla fretta, dalla mobilità, dal bisogno di collezionare esperienze che non sempre favoriscono rapporti sereni e duraturi. Ma poi, ricordiamo che la relazione con l’altro si gioca attraverso lo sguardo, porta aperta o chiusa per coloro che incontriamo. È grande la differenza tra uno sguardo frettoloso e sbrigativo, spesso formale e infastidito, e uno intenso, attento, appassionato e accogliente.
Sì, lo sguardo è la prima forma di benevolenza. Assieme allo sguardo anche la parola, non dimenticando che noi non possediamo nulla che abbia, nello stesso tempo, il potere e la leggerezza delle parole, perché nulla possiede, a un tempo, l’imponderabilità e l’immensità dello spirito. Le parole possono cambiare la vita in bene o in male. Ad esse dobbiamo in gran parte chi siamo. C’è una parola che costruisce e una che distrugge, una parola che diffonde calore e luce, un’altra che semina gelo, una che infonde fiducia e restituisce l’individuo a se stesso e al futuro, un’altra che la spegne. Considerazione dell’altro, sguardo che cura, parola che consola, presenza che accompagna: è questa la via perché ogni uomo possa sentire che la sua vita è benedetta e mai un peso o un problema difficile da risolvere e troppo oneroso da sopportare.
Sia l’Università plasmata dalla fiducia e non dalla diffidenza, allontanando la tentazione a isolarci e a difenderci da chi sentiamo diverso. Guidiamo nei fatti una cultura dell’incontro. Il grande nemico è la voglia di autopreservarsi, immaginando di dare risposta a domande che mai nessuno ci ha rivolte e investendo energie in direzioni sbagliate. Guardiamo alla vita di ognuno di noi, convinti che possiamo aprire orizzonti nuovi e spazi di coraggio. Quante volte immaginiamo di non riuscire a superare le nostre fragilità. Poi, in maniera inedita e gratuita e, perciò, provvidenziale accogliamo una parola, uno sguardo o un invito che ci fa aggrappare al possibile dell’impossibile. La nostra vita è viva se coltiva tesori di speranze; vive se custodisce l’ossigeno di persone amate e un capitale di sogni, per i quali trepidare e festeggiare. Come scriveva Rainer Maria Rilke: «Dobbiamo, in amore praticare solo questo: lasciarci andare l’un l’altro. Perché è trattenere che viene spontaneo».

†Vincenzo Pelvi
Arcivescovo