OMELIE

La fede che salva

Omelia di Mons. Ferretti del 09-10-2016

Ingresso di d. Antonio Tenace come nuovo parroco di Spirito Santo

Il Vangelo ora ascoltato ricorda che dieci lebbrosi furono guariti, ma che uno solo torna indietro per ringraziare Gesù. Era un samaritano, oggi diremmo uno lontano dalla Chiesa, che riesce a prendere la distanza dal suo io e riconoscere la grazia del Signore. Scoprire l’enorme sproporzione tra il tanto che riceviamo e il poco che doniamo è il primo passo perché sulle nostre labbra possa sbocciare un grazie. La gratitudine ha un valore salvifico. Ringraziare è fonte di salvezza in quanto stabilisce un dialogo tra Gesù e la persona, la quale diventa, capace di porsi vicino agli altri, specialmente nei momenti di prova, portando consolazione, speranza e luce. Nove lebbrosi ottengono la salute fisica, mentre il samaritano, oltre a questa, ottiene anche la salute spirituale, perché realizza una relazione interpersonale con Gesù, tale da produrre frutti di una gioia infinita. I nove non tornano e si limitano a obbedire all’ordine di presentarsi ai sacerdoti, come previsto dalla legge. 
Uno torna, travolto dallo stupore. Non solo è guarito, purificato, ma viene salvato, e quando se ne accorge torna indietro, si getta ai piedi di Gesù e lo ringrazia. La riconoscenza è, dunque, l’atto secondo di chi prende consapevolezza che ogni suo bene viene dall’Alto. Al samaritano non basta tornare dai suoi, alla felicità di una vita normale; egli scopre la fonte della sua gioia, accostandosi al mistero del Figlio di Dio. 
In realtà, intuisce che il segreto di quel legame non sta nella guarigione, ma nel Guaritore, che fa fiorire il gusto della vita e la bellezza della storia. Il Donatore è più prezioso del dono accordato. Prima che il dono venga concesso, il samaritano aderisce a Colui che dona: «Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato».
Anche per noi, al di là di ciò che Dio ci offre quando lo invochiamo, il dono più grande che può darci è la sua amicizia, la sua presenza, il suo amore. Lui è il tesoro prezioso da chiedere e sempre custodire. Diversamente, sperimentiamo il rischio che si continui a parlare di Qualcuno che in realtà non si conosce, perché non ci si è mai relazionati davvero a Lui. 
In Dio, così, anche le cose più insensate e dure possono trasformarsi in occasioni di crescita, ma occorre guardarsi dentro per giungere al riconoscimento di ciò che è avvenuto e, quindi, al ringraziamento. Per il Signore, questo, è un miracolo più importante della stessa guarigione fisica. Egli guarisce perché si ritorni da Lui, per conoscere di nuovo, una seconda volta, il suo amore. Posare lo sguardo su Dio diventa, per il samaritano, la via per ri-posare lo sguardo su se stesso e sugli altri in una luce nuova, capace di andare oltre ogni tenebra e di dare calore al proprio cuore e a quello di quanti gli si avvicinano. 
«Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato»: avvicinarsi a Gesù, fa sì che la sua vita diventi la nostra. Così smuoviamo l’onnipotenza divina non solo per i beni ricevuti, ma anche per un futuro, aperto alla fede, dove non si faranno attendere altri segni e prodigi. 
Caro don Tonino, desidero immaginare il sacerdote come un samaritano mandato, perché salvato. Egli vive la fede nella forma della gratitudine, della lode e della glorificazione. La fede, infatti, permette di entrare in sintonia con la gratuità di Dio. Un parroco manifesta al concreto il suo credo testimoniando nel vissuto quotidiano l’intreccio tra gratuità divina e gratitudine umana.
Vivi il ministero sacerdotale con una fede a forma di gratitudine che consente la conoscenza del mistero di Dio, assaporandone la salvezza. Tutto è grazia. Perciò un parroco non si lascia invadere dalle illusioni, dalle apparenze, dalle cose materiali. La salvezza non va considerata nel solo benessere materiale, ma come opera di Dio, cui diamo il primato dell’esistenza. Fede, gratitudine e gratuità camminano insieme. Come sacerdoti non chiudiamoci nella ricerca del proprio servizio e della propria posizione, ma ogni giorno, nelle piccole cose, cerchiamo la verità e l’amore di Dio da conoscere mettendo in gioco la nostra vita. È questo il centro dell’avventura evangelica di un parroco, che al termine di una lunga giornata di affanno pastorale, dice al padrone della vigna: «Grazie, Signore. Sono un servo immeritevole. Ho fatto semplicemente quello che dovevo fare. Non mi sono preoccupato di guardare l’orologio. Non mi sono innervosito, né ho invidiato i miei confratelli che si impegnano in parrocchia meno di me. Non ho calcolato i meriti che mi aiuteranno a far carriera. È duro e faticoso, Signore, ma bello, lavorare nella tua Chiesa. Ti ringrazio perché hai voluto contagiarmi con lo stile della tua gratuità. Con il tuo aiuto, voglio donare i miei beni, il mio tempo, le mie forze, per la costruzione del tuo Regno. È più bello sentirsi amati che venire pagati e ricompensati per l’impegno apostolico». Per me, per noi sacerdoti e per ogni cristiano restano significative le parole di Paolo ai Corinzi (Cfr. 2Cor 6,3-10): «Da parte nostra non diamo motivo di scandalo a nessuno, perché non venga criticato il nostro ministero; ma in ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni…nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure notissimi; moribondi, e invece viviamo; puniti, ma non uccisi; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma capaci di arricchire molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto».