INTERVENTI

Catechista testimone credibile alla luce del convegno nazionale

Convegno dei catechisti

(pubblicato il 23-10-2022)

Catechista testimone credibile alla luce del convegno nazionale                                                                    Convegno dei catechisti                                                                                                                                      Foggia, 23 ottobre 2022



1. Catechista: testimone del toccare         

Forse abbiamo elaborato una teologia della fede e della rivelazione basata fondamentalmente sui sensi della vista e dell’udito, e abbiamo considerato il senso del tatto come indegno della fede. Guardiamo, infatti, con un certo sospetto l’apostolo Tommaso, che vuole toccare il Signore (cfr. Gv 20,24-29): tuttavia, che la richiesta di Tommaso non sia così anomala è confermato dal fatto che il Signore l’ha ascoltata. Non sappiamo se Tommaso abbia effettivamente toccato il Signore, ma che il Signore abbia inteso onorare la sua richiesta è fuor di dubbio. Purtroppo a volte bistrattiamo Tommaso, che tra l’altro è l’autore della più bella professione di fede del Nuovo Testamento (cfr. Gv 20,28). Non dobbiamo denigrare la qualità della fede di Tommaso, che intendeva toccare il Signore. L’intenzione della Chiesa nell’editare le sue Scritture spinge a leggere prima l’intero Vangelo di Matteo, poi quello di Marco, poi ancora quello di Luca e infine quello di Giovanni con la pagina che riguarda Tommaso. Leggendo l’episodio della Risurrezione secondo Matteo, ci si accorge che le donne si aggrappano ai piedi di Gesù Risorto, mentre egli non dice nulla: qui il senso della Risurrezione è il tatto. Leggendo il cap. 24 del Vangelo di Luca, dove racconta l’apparizione di Gesù a Gerusalemme, ci si accorge che Gesù invita a toccarlo prima ancora che qualcuno glielo chieda. Dal momento che non lo toccano, allora è lui a farlo: prende una porzione di pesce arrostito e lo mangia davanti a loro. Il tatto è quindi a tutti gli effetti un senso della fede. Abbiamo l’occasione per cambiare la gerarchia dei sensi della fede: prima si tocca e poi si vede; prima si tocca e poi si sente. Il tatto è il senso della certezza e della reciprocità.



2. Catechista: testimone della consegna



Nella scena di Elia sull’Oreb (cfr. 1Re 19,15-21) il Signore spiega che lui non è l’unico e che le cose sono più grandi di quanto egli creda: gli spiega che ha già trovato il suo sostituto e che presto dovrà passare il testimone. Eliseo è il successore di Elia, eredita da lui il compito della testimonianza.



Prendiamo la vocazione di Isaia (cfr. Is 6): il profeta si trova nella Terra santa, nella città santa della Terra santa che è Gerusalemme, nella parte più santa della Città santa che è il tempio, probabilmente nella parte più santa del tempio. Insomma, si trovava nel luogo più santo del mondo. Lì gli appare il Signore. Isaia trema dall’emozione, mentre i serafini cantano:



«Santo, Santo, Santo il Signore Dio dell’universo. Tutta la terra è piena della sua Gloria». La Gloria è Dio stesso che agisce nel mondo. In quel luogo così santo viene detto che Jhwh è Dio di tutta la terra, perché egli abita e riempie il mondo intero. Sembra che il compito del luogo santo, che ha effettivamente una differenza specifica rispetto al resto, sia proprio quello di ricordare che Dio è dappertutto. L’Eucarestia non insegna a vedere Cristo in ogni angolo della terra? Lo stesso vale per la catechesi: pur essendo specifica cristiana, non può non farci comprendere che la terra tutta è piena del la Gloria di Dio. La Sacra Scrittura utilizza il tema dell’eredità per parlare addirittura di Cristo: egli è «l’erede di tutte le cose» (Eb 1,2). E noi cristiani siamo «coeredi di Cristo» (Rm 8,17). Si può considerare il processo della testimonianza come un processo di eredità lasciata e ricevuta. Questo processo riguarda i singoli, le famiglie, le società, le generazioni, le stagioni della vita. Ci si allea con chi ci succederà, lasciandogli qualcosa.



La nostra generazione cristiana è consapevole di essere una generazione che passa? Per lasciare a qualcuno una cosa che consideriamo vitale dobbiamo essere disposti a capire che passiamo, che qualcun altro prenderà il nostro posto: prenderà le cose che abbiamo fatto e magari le farà in modo diverso da noi. Non sappiamo che cosa sarà della nostra eredità. Una cosa è certa, che dobbiamo lasciare qualcosa che promuova la vita della generazione che viene. Dobbiamo lasciare in eredità un’esperienza ecclesiale, che sia promotrice di vita. Dobbiamo lasciare in eredità la testimonianza della nostra fede, speranza e carità. Potremmo essere testimoni della fede: ma quanta speranza produce la mia fede? quanta speranza produce la mia carità? Se la mia carità non produce speranza devo domandarmi se è vera carità. La speranza è la capacità di sentire una presenza anche nel vuoto, anche quando non c’è niente da vedere.



3. Catechista: credibilità del viatore        

La più potente forza di educazione consiste nel fatto che io stesso, cioè io educatore, in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere.  

Proprio il fatto che io lotto per migliorarmi dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro. La parola “credibilità” qui non è legata ad uno status, ad una dimensione in cui l’educatore si ritiene arrivato, si sente forte. La credibilità è piuttosto legata ad un movimento, ad una situazione in cui mi protendo in avanti, in alto. Ed è proprio questa lotta interiore per il miglioramento, questo movimento interiore personale che dà credibilità al fatto che io vivo un movimento anche verso l’altro. Mi posso prendere cura di qualcun altro, se ho cura di me e del mio miglioramento. Così la “sollecitudine” per l’altro è credibile quando si accompagna costantemente ad un personale movimento interiore.         

Qual è, allora, lo stile, qual è il portamento di un catechista-testimone che è per via, che vive lo stile dell’itineranza? C’è anzitutto una questione di sguardo, di cornice. La persona in cammino, in ricerca, vive immersa nella realtà e nel Dio che abita già quella realtà. La realtà è fatta di mistero e non si lascia afferrare mai del tutto. Ed è proprio questa postura nei confronti di qualcosa che non riesco a possedere, ma che in qualche modo mi avvolge e che devo respirare come un’atmosfera, che caratterizza la capacità e l’efficacia dell’homo viator e quindi del catechista. Più che una spiegazione della vita e della fede, viene richiesta al testimone una partecipazione alla vita stessa delle persone.

Sulla base di questa comune umanità, ovvero posso scoprire qualcosa con l’altro, anche con i bambini più piccoli, anche con le persone che mi sembrano “immature”. Quindi il testimone, il catechista non risolve i problemi ma vive un mistero. Molte volte viviamo in contesti in cui pensiamo di risolvere i problemi con le nostre azioni e con la progettazione: pensiamo di risolvere il problema che i bambini non vengono a messa, che le famiglie non credono più, ecc. Al catechista non è chiesto questo, ma di stare in relazione al mistero dell’umanità e della presenza di Dio, che sta già in quell’umanità, che aspetta soltanto di essere scoperta attraverso le tracce di senso. Quindi il catechista segue lo stile di un Dio che è viator. Se Gesù ha annunciato il Padre in cammino, anche noi siamo chiamati in qualche modo a esserlo e a testimoniare come “quelli della via” (cfr. At 9,2).



4. Catechista, la credibilità del cercatore



Il testimone, il catechista, è quindi in ricerca con l’altro: è in ricerca della realtà ed è in ricerca di Dio. Cosa vuol dire essere in ricerca con metodo? Innanzitutto rendere esplicite le domande generative, cioè provare a capire per esempio se i ragazzi hanno delle domande di senso e provare ad esplicitarle; quindi trasformare i contenuti che di solito hanno un punto alla fine in domande di vita che hanno un punto interrogativo. Questo anno di catechismo che sta per iniziare è una ricerca di scoperta dell’umano, dei ragazzi, di Dio della realtà: quali domande mi guidano, che cosa ho voglia di scoprire, in che prospettiva mi metto?



È importante imparare ad osservare. Ogni adulto che sta in relazione con i giovani ha una funzione di osservazione, raccoglie dei dati. Cosa vede nei ragazzi? Se non si ha l’atteggiamento della ricerca quando si sta con i ragazzi, si rischia di fare una semplice lezione senza raccogliere nulla. Ma se ricerco, allora sarò spronato a raccogliere, a documentare, a darmi un criterio per osservare. Molti percorsi di catechesi non vengono raccontati, ma si chiudono con una verifica molto generica sull’anno trascorso. Non ci raccontiamo i percorsi di fede che i nostri ragazzi vivono: ma non è piuttosto questo che a noi sta a cuore, i passaggi, le esperienze di vita, che allestiamo e che proponiamo e dentro cui viviamo?



Abbiamo bisogno di mettere tra parentesi dei pregiudizi nei confronti della realtà. Ma si tratta soprattutto di prestare attenzione alla dimensione di fede che abitiamo entrambi. Quindi Dio è presente: lì c’è già qualcosa che ha valore in sé. Sarebbe rivoluzionario capire che i bambini hanno un bagaglio di sapere, di conoscenze ed intelligenze che noi dobbiamo soltanto attivare.





5. Per una verifica del catechista testimone credibile



L’imprevisto     

L’imprevisto, l’imprevedibile ci attesta che i percorsi non sono lineari, che il nostro non è un Dio dei programmi ma dei progetti, un Dio che si serve degli imprevisti e di un margine di possibilità per creare meraviglia. Molte volte valutiamo negativamente l’imprevisto. In realtà nell’erranza educativa, nello stare per via, l’accoglienza degli imprevisti dice la nostra fede. Senza imprevisti non saremmo portati a percepire quel vuoto, quella sensazione di instabilità, quella domanda che porta poi a fidarsi e ad affidarsi. Senza questa dimensione tutto ciò che viviamo può ridursi a programma, ricerca di linearità, ricerca di un Dio che mi va sempre bene, che mi aiuta sempre, di cui posso servirmi. L’imprevisto invece presenta un’eccedenza, ci supera, supera il calcolo e l’immaginazione.



Viviamo in un’epoca in cui tutto deve essere controllabile. Quindi solo attraverso l’imprevisto si può nutrire la fiducia nella Provvidenza e nella grazia. Posso smettere di pensare a cosa fare e iniziare a pensare a come pormi nei confronti della realtà, di un’avventura, di un percorso da fare. La fede non è una questione di attività e contenuti, ma della postura che si assume nei confronti della vita.



Il catechista non esercita tutto il potere di cui si dispone. Solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto dove c’è un vuoto a riceverla; e quel vuoto, è essa a farlo. La grazia crea il vuoto e vi risponde. Accettare un vuoto in sé stessi è una cosa sovrannaturale, a maggior ragione in questo tempo. L’autore del Siracide invita ad andare dove la vita lo conduce, cercando di non recare intralcio alla musica che porta nel profondo di sé stesso (Sir 32,5). A volte disturbiamo la musica di fede esistenziale che c’è già, oppure viviamo come un disturbo le domande dei ragazzi. In realtà, quello che a noi sembra un disturbo è già una sinfonia presente e finiamo per non sintonizzarci con questa presenza che chiede anche un po’ di orecchio.



La responsabilità delle figure educative è volta all’autonomia dell’altro. L’educatore come il catechista è fatto per passare il testimone ad altri, accettando il rischio della perdita o del ritorno dell’altro in modo più consapevole. La fatica di molti genitori con gli adolescenti ci fa percepire il vissuto della fine, dove il genitore non è più utile e deve farsi da parte. È necessario togliere le impalcature non necessarie. Mettiamo delle impalcature durante l’infanzia dei bambini, che però ad un certo punto non servono più. Quando la casa è finita, le impalcature vanno tolte, perché si possa vedere la bellezza della costruzione. Invece spesso si fa l’errore di voler mantenere le impalcature, il supporto, anche nei percorsi di fede. Ma arriva il momento in cui il ragazzo va lasciato camminare sulle proprie gambe.



I passaggi



Il testimone in cammino ha cura dei passaggi. Nei passaggi di vita come l’adolescenza avviene il passaggio da una religiosità acquisita ad una interiorizzata. Significa passare dal vivere la fede solo perché l’ha detto un genitore o il catechista al vivere la fede perché se ne scopre il valore in sé. Nei passaggi c’è bisogno di riti ed è questa dimensione umana che dobbiamo curare, quando ad esempio c’è la celebrazione dei sacramenti. Le comunità cristiane sono chiamate a stare in quei passaggi: magari la domanda non è del tutto precisa, ma il bisogno esistenziale è reale. Si ha bisogno di celebrare autenticamente nella comunità i momenti che esprimono una crescita, come singolo, come famiglia, come comunità. Ci si può impegnare a passare da un principio funzionale, in cui Dio mi serve o io servo a Dio, ad un principio di relazione e di reciprocità. Nel buon uso delle crisi e dei passaggi ci si gioca molto. Proprio nei momenti di passaggio si giocano la fede, l’autenticità e la credibilità dei testimoni.



Il linguaggio                                                                                          

Un altro elemento fondamentale concerne la capacità di raccontare, l’attenzione al linguaggio e a come si raccontano i percorsi. Il linguaggio non è solo uno specchio della realtà, ma contribuisce a formarla. Quando si chiede di togliere la parola “lezione” accanto a “catechismo” non è per una formalità, ma perché dice una realtà. Quando si cambiano i termini, non si tratta tanto di un vezzo sintattico e grammaticale, ma di dare un altro significato a quella realtà. La ricerca di parole nuove, che permettano di approdare a significati diversi della stessa realtà, è fondamentale. Viktor Frankl scrive: «Quand’ero bambino, alle scuole elementari sentivamo sempre ripetere che credere significa non sapere, e non sapere vuol dire essere un asino. Ciò vuol dire che la fede veniva fatta passare per una variante ridotta di un atto mentale. Io credo che sia vero l’opposto. Non ritengo che la fede sia un pensiero, un atto mentale, a cui è stata tolta la realtà dell’oggetto pensato, ma al contrario che la fede sia un pensiero al quale è stata aggiunta l’esistenzialità di chi lo pensa. Proprio questo non implica minimamente che credere vuol dire non sapere nulla, ma in verità che l’atto di fede è sostanzialmente un atto esistenziale».



I percorsi                                                                                               

Un aspetto da considerare è l’eterogeneità dei gruppi e delle situazioni e la fatica a vivere la differenza come una risorsa. Spesso creiamo delle realtà o delle esperienze nelle quali le persone possono esprimersi molto poco. Si dovrebbe riflettere anche sulle équipe dei catechisti e sulla possibilità di allenarsi in gruppo a sentire il fiato dell’altro, ad andare un po’ a ritmo dell’altro: nei percorsi standardizzati tendiamo invece a tirare avanti per la nostra strada. In realtà, non esistono percorsi lineari o standardizzati: non si tratta allora di vagare nel vuoto, ma di provare a personalizzare i percorsi.



L’accompagnamento



L’ultimo passaggio è riscoprire il senso dell’accompagnamento, che non significa creare una sequela ripetitiva, ma offrire direzioni di senso nelle quali potersi muovere avendo l’educatore accanto. Molte volte all’inizio dell’anno si è impegnati a pensare come i ragazzi devono arrivare alla Prima Comunione o alla Cresima, purtroppo con una metodologia di stampo scolastico. È invece bello quando i catechisti vivono il presente come un dono. In quella relazione lì, in quell’abbraccio, in quel saluto, in quello spirito di accoglienza, si vive già un’esperienza di fede, una vicinanza con Dio al di là di quello che si raggiungerà.



6. Conclusione



Concludo con le parole che il Santo Padre ha rivolto ai catechisti in un Convengo internazionale: «Vi prego: non stancatevi mai di essere catechisti. Non di “fare la lezione” di catechesi. La catechesi non può essere come un’ora di scuola, ma è un’esperienza viva della fede che ognuno di noi sente il desiderio di trasmettere alle nuove generazioni. Certo, dobbiamo trovare le modalità migliori perché la comunicazione della fede sia adeguata all’età e alla preparazione delle persone che ci ascoltano; eppure, è decisivo l’incontro personale che abbiamo con ciascuno di loro. Solo l’incontro interpersonale apre il cuore a ricevere il primo annuncio e a desiderare di crescere nella vita cristiana con il dinamismo proprio che la catechesi permette di attuare».



+ Vincenzo Pelvi

Arcivescovo