INTERVENTI

Giovani: seminatori di legalita'

Messaggio dell'Arcivescovo per il Patto provinciale della legalita'

(pubblicato il 07-06-2023)
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Arcidiocesi Metropolitana di Foggia-Bovino

Giovani: seminatori di legalita'

Messaggio dell’Arcivescovo per il Patto provinciale della legalita'


Foggia 2023

Avvertiamo tutti l’esigenza di un grande recupero di moralità e legalità. Preoccupa, infatti, l’esplosione della grande criminalità, come pure l’aumento della piccola criminalità e una facile assuefazione a essa, quasi fosse un male inevitabile. Avviene così che, non solo cresce il numero dei delitti denunciati, che però rimangono impuniti perché i loro autori restano ignoti, ma cresce sempre più il numero delle vittime dei crimini non denunciati, ritenendo la denuncia del tutto inutile. Ciò rivela una rassegnazione e una sfiducia che vanificano il senso della legalità. Dinanzi all’eclissi di una mentalità di incontro, dialogo e fraternità, siamo come dei ciechi che, pur vedendo, non vedono. Eppure, il rischio della cecità come indifferenza, egoismo, potere e sopraffazione, guerra di tutti contro tutti, potrà essere scongiurato.

Non passa giorno che non scoppi uno scandalo: frodi, appropriazioni indebite…Ciò produce effetti devastanti, specie quando l’illegalità viene da persone che hanno responsabilità pubbliche: impoverimento di intere popolazioni, degrado ambientale, tratta di esseri umani, perfino guerre. La rincorsa al bene-avere spesso oscura l’esigenza del bene-essere; la burocratizzazione della vita, nel rapporto tra il cittadino e lo Stato, ha accresciuto la dipendenza dal potere; soprattutto la costituzione di gruppi di potere alternativi che dispongono di ingenti mezzi economici, ha consentito persuasioni occulte nella linea della irresponsabilità.



Un “Dio diverso”

I corrotti pregano non il Dio di Gesù, ma un “Dio diverso”, perché traggono dalla religione quello che conviene e si costruiscono una divinità adeguata alle loro esigenze.

Si assume come principio fondante del proprio comportamento non l’etica della responsabilità, ma dell’intenzione, secondo la quale ciò che conta è il pentimento interiore dinanzi a Dio e non agli uomini. Per i malavitosi non c’è contraddizione tra credere in Dio, nella Chiesa e al tempo stesso aderire a una organizzazione criminale. Essi si sentono naturalmente devoti e pensano di avere un rapporto del tutto particolare e speciale con Dio. Non li sfiora neanche lontanamente la percezione di assoluta incompatibilità tra l’essere dei feroci assassini e dei ferventi cattolici. Ogni corrotto è un complesso di «inquestionabilità». Si offende dinanzi a qualunque osservazione, discredita la perso­na o l’istituzione che la emette, fa in modo che qualsiasi autorità morale in grado di criticarlo sia eliminata, ri­corre a compromessi per giustificarsi, sminuisce gli altri e attacca con l’insul­to quelli che la pensano diversamente. La corruzione non è un atto, ma uno sta­to personale e sociale, nel quale ci si abitua a vivere. I non-valori della corruzione, purtroppo, sono integrati in una cultura che coinvolge proseliti al fine di abbassarli al livello di complicità. Que­sta cultura si serve di un doppio dinamismo: dell’appa­renza e della realtà, dell’immanenza e della trascenden­za. L’apparenza è l’elaborazione della realtà, che mira a imporsi in una accettazione sociale la più generale possibile. È una cultura della sottrazione: si sottrae re­altà a favore dell’apparenza. La trascendenza, poi, si avvicina sempre più al di qua, tanto da farsi quasi immanenza, avvolta da molta sfacciataggine, che si impone come prepotenza quotidiana.

La corruzio­ne non può essere perdonata, semplicemente per il fatto che alla radice di qualunque atteggiamento mafioso c’è un rifiuto della trascendenza. Di fronte a Dio, che non si stanca di perdonare, il corrotto si erge come au­tosufficiente nell’espressione della sua salvezza e non chiede perdono.

Per un criminale il problema principale è il controllo del senso di colpa. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, potere e, perché no, anche la “protezione” del Cielo.

Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la ragione delle azioni mafiose e criminali, pronto al perdono per tutto quel che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. Ma se degli assassini non provano rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in auto-assoluzione. Tale comportamento, intriso di analfabetismo religioso, porta a trascurare e oscurare le gravi responsabilità delle proprie scelte. Non ci può essere autentico pentimento senza riparare con gesti concreti l’ingiustizia commessa e il dolore procurato.

La colpa non è solo verso Dio ma anche verso gli altri, la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi. Il perdono divino esige anche l’assunzione di quella responsabilità etica che ha una valenza pubblica. C’è, in fondo, bisogno di un animus non solo «naturalmente cristiano», ma anche erede e portatore di pro­fondi valori umani ed evangelici, che non possono rimanere nell’inti­mo o nell’emotivo, ma necessitano di essere tradotti caritatevolmente in realtà e in principio di dinamismo storico.

Emerge la necessità di saldare fede e storia, superando quella frattura tra Vangelo e cultura che è il dramma della nostra epoca. Occorre avviare un’opera di inculturazione della fede che raggiunga e trasformi, mediante la forza delle opere e dei segni, i criteri di giudizio, i va­lori determinanti, le linee di pensiero e i modelli di vita, in modo che il cristianesimo continui a offrire il senso e l’orientamento dell’esistenza umana. A questo scopo, si richiede un impegno illuminato di formazione delle coscienze che non allontani il cielo dalla terra ed elabori modelli collettivi di comportamento di tipo solidaristico, in alternativa a quelli individualistici e corruttivi. L’amore verso Dio si manifesta nella fraternità umana e nella solidarietà sociale.



Foggia reagisci

In questa logica si inserisce quella cultu­ra della città che consiste nell’impegno di essere fedeli alla pro­pria identità, ossia a quel patrimonio di valori tramanda­ti e acquisiti che costituiscono il tessuto culturale di un popolo. Essa, però, consiste anche nella ricerca continua e a tutto campo della verità, e quindi nel rendere quei valori più vivi, attuali e personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido, da falsità ed errori o da forme invecchiate, che possono essere sostituite da altre più adeguate ai tempi.

Viviamo in un tempo di grande difficoltà, che vede nel bisogno e nella precarietà tante famiglie e giovani, che con onestà e fatica si preoccupano di mantenere integra la loro dignità.

La nostra città non è solo abbandono e pigrizia ma patrimonio umano, culturale e religioso, terra di integrazione e accoglienza.

Non dobbiamo, perciò, aver paura delle sfide provocate dalla società globalizzata, né rinchiuderci nei confini gretti di un mortificante disimpegno. Dal momento che conosciamo i difetti, desideriamo rovesciare le opinioni correnti e aprirci a orizzonti positivi di una nuova creatività. Da un forte bisogno di solidarietà che umanizza, nello scambio di doni di cui ognuno è portatore, è nata l’idea di questo messaggio, con l’intento di trasformare ciascuno in una risorsa permanente di fiducia e di coraggio da mettere al servizio di una nuova stagione di risveglio per la città.

Foggia non crescerà se non insieme, con un instancabile sforzo comune, con l’assunzione più netta e decisa di responsabilità di fronte all’inquietante malessere sociale che respiriamo.

Contro i condizionamenti perversi della criminalità, la diffusione di comportamenti asociali, la nuova aggravata incidenza delle “illegalità” diffuse, l’impoverimento del potenziale umano giovanile costretto a emigrare e investire altrove le proprie attese e capacità, il nostro grido si fa più eloquente.

Nelle pieghe di ogni forma di corruzione si nasconde il disprezzo verso quell’insieme indistinto chiamato “la gente”, non più in grado di opporre una resistenza condivisa e critica. Siamo, infatti, testimoni della celerità con cui il sentire superficiale tende a lasciarsi condizionare dalla moda del momento. Ne consegue, così, che ci stiamo abituando ai fatti di corruzione, come se facessero parte della vita normale della società, quasi uno stile accettabile e desiderabile nella convivenza cittadina.

È urgente ripristinare la legalità nel campo delle relazioni sociali, dove vige l’idea che tutto sia lecito, anche arricchirsi con ruberie, concussioni e corruzioni, illegalità piccole e grandi. Per ricostruire una cultura della legalità occorre cominciare dal basso, promuovendo un’opera di rigenerazione collettiva di nuovi rapporti sociali, a cui tutte le componenti della società sono chiamate a dare il loro apporto. Anche la Chiesa può dare un contributo specifico a questo impegno di rigenerazione sociale e morale, di mentalità e pratiche a partire dalla testimonianza concreta, per l’affermazione del bene comune.

In tutto ciò, comunità cristiana e società civile devono e possono lealmente cooperare, perché il senso religioso del nostro popolo si accompagni a un’analoga coscienza civica e a una trasparente e attiva partecipazione al bene comune in uno scambio fecondo di valori.



La politica del bene comune

Foggia avverte dolorosamente, per quanto spesso confusamente, l’avvilimento della paura e della fragilità. La tendenza ad anestetizzare questo profondo disagio, attraverso una cieca rincorsa al godimento materiale, produce malinconia e delusione. Dobbiamo riconoscerlo: gli uomini e le donne del nostro territorio sono spesso demoralizzati e disorientati, senza visione. Siamo un po’ tutti ripiegati su noi stessi. Il sistema del denaro e l’ideologia del consumo selezionano i nostri bisogni e manipolano i nostri sogni, senza alcun riguardo per la bellezza della vita.

Dobbiamo, perciò, reagire agli spiriti negativi che fomentano la divisione, l’indifferenza, l’ostilità. Dobbiamo farlo non soltanto per noi, ma per tutti. E bisogna farlo subito, prima che sia troppo tardi, anche perché la democrazia non è mai una conquista definitiva.

Di qui l’impegno di un elettorato attivo e partecipativo che non può sperare il proprio avvenire dal piccolo grande privilegio, dall’eccezione, dalla propria singola, particolare condizione di favore. Forte della debolezza della politica, sempre più spesso Foggia sembra non voler riconoscere più alcun potere di direzione alla politica stessa, ma di cercarne solo l’appoggio necessario per la sua sopravvivenza spicciola. E domani capiti quel che può capitare. La politica si muove in questa ricerca con consumata spregiudicatezza, tanto a destra come a sinistra, utilizzando tutto per i propri interessi. In città non sembra più ormai possibile fare nulla, cambiare nulla, perché c’è sempre qualcuno dotato di un potere di interdizione che dice di no.

Ne consegue l’appello a lavorare insieme per il bene comune. Tutti, giovani e adulti, siamo cittadini e abbiamo una vocazione al servizio del bene comune. Orizzonte e fine di questa vocazione è la buona politica, amica delle persone, inclusiva, che non lascia ai margini nessuno, ma tiene il timone fisso nella direzione del bene di tutti.

Purtroppo sentimenti di paura, diffidenza e persino odio hanno preso forma tra la nostra gente e si esprimono nei social network, inquinando il senso etico del nostro popolo. La malattia spirituale più evidente è la paura, l’indifferenza, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali, la perdita del senso di fraternità e solidarietà. Sembra che non si abbia più fiducia di nessuno: medici, docenti, politici, intellettuali, giornalisti. Nasce, perciò, l’esigenza di costruire legami per favorire quell’amicizia sociale e riconoscersi come una comunità di vita che ha un unico destino. Sentirsi comunità significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri, pensarsi dentro un futuro comune da costruire insieme, curando le ferite di legami spezzati e della fiducia tradita.

Ogni offerta politica non può identificare nemici da guardare come ostili. Abbiamo bisogno di uno spazio libero da parole cattive e dalla tecnica della chiusura e della derisione dell’avversario. Serve, infatti, un nuovo modo di intendere l’impegno politico con la capacità di creare un protagonismo diffuso a partire dalle realtà sociali più dinamiche e positive, all’interno delle quali il mondo cattolico è spesso tra le componenti più vitali. L’impegno concreto e responsabile in politica non è potere, ma servizio di chi non si lascia corrompere e che accetta quasi un martirio quotidiano per cucire reti d’incontro e solidarietà.

Torniamo alla politica della verità e non perdiamo la speranza, recuperando il bene comune dei cittadini (cf. GS 74). Anche perché la politica non è un incontro tra uguali, ma la convivenza e la comprensione tra persone diverse, che possono raggiungere obiettivi comuni.

I problemi si risolvono evitando la via dello scontro, senza cedere, però, alla tentazione di soluzioni magiche a problemi complessi. La politica non può essere fatta da perenni liti o liste elettorali di scopo, non costruita appositamente per il solito ceto politico, non fabbricata a freddo nei laboratori dei social media, ma intessuta di esperienze vere, vissuto quotidiano, esistenza reale dei cittadini. Una politica, direi, che si costruisce dal basso senza fretta e con pazienza. Perché ciò si realizzi ci vuole la cultura dell’incontro, capace di ricamare la trama sociale troppo sfilacciata della società. Ricamare e dare rappresentanza, rispettando le identità di ciascuno, quelle individuali, associative e sociali, trovando la mediazione di una politica più ragionata e meno urlata, senza meschinità, tradimento e diaspora.

La politica non deve accontentare tutti, ma rappresentare tutti.



La comunità cristiana per la legalità

La Chiesa è comunità di fede, ma anche soggetto sociale sul territorio che non sta alla finestra a guardare ma è presente perché assieme si superi ogni forma di organizzazione malavitosa.

La comunità cristiana si sente, infatti, fortemente impegna­ta in forza della stessa fede a combattere le cause di ingiustizia ancora diffusa e a contribuire fattivamente per il rispetto delle giuste leggi.

Sotto questo profilo, la legge civile è da vedersi come uno strumento a servizio della persona, e, di conse­guenza, può anche essere criticata nell’intento di render­la meglio rispondente alla sua funzione at­tuativa del bene comune. Essa è una condizione necessa­ria perché i cittadini siano autenticamente liberi e la società, pur nelle sue inevitabili disarmonie, possa crescere armonicamente. In questo cammino di maturazione la comunità cristiana, sensibile alle esigenze della promo­zione integrale dell’uomo e del bene comune, è chiama­ta a offrire il proprio contributo di crescita della legalità, anche se è consapevole che gli obiettivi della Chiesa sono di ordine morale e spirituale e perseguono fini che trascendono la storia.

La comunità intende continuare questo servizio alla società civile, con i contenuti e lo stile che le sono propri, soprat­tutto attraverso la predicazione, la catechesi, le varie ini­ziative di presenza e di servizio sul territorio, perché i cristiani considerino lo stato democratico non come una realtà estranea, ma come il luogo sociale e politico al quale appartengono a pieno titolo di cittadini e nel qua­le si impegnano a migliorare la convivenza di tutti, testi­moniando e proponendo i grandi valori umani ed evan­gelici della Dottrina sociale.

Abbiamo fiducia che la coerenza al Vangelo, da parte dei credenti, serva a quell’ordinata convivenza civile che amiamo e che ci auguriamo capace di prevalere contro ogni degrado, corruzione o disordine.



Un cammino di speranza

Dentro e attorno a noi ci sono sofferenze che vengono negate, angosce nascoste, dolori che sono rimossi. Nelle case e negli ambienti della nostra città, spesso si rimuove il dolore e ciascuno si ostina a guardare da un’altra parte per non fissare ciò che avremmo invece il dovere di vedere. Stiamo rischiando di assuefarci a quella indifferenza verso ogni forma di illegalità. Purtroppo si riduce la realtà a se stessi, con la conseguente diffusione del narcisismo, palude che apre alla complicità con il male, dentro cui si sprofonda quasi senza accorgersene.

Riprendiamoci il coraggio della speranza, perché si ossigeni di stupore e futuro la nostra esistenza, meravigliosa agli occhi di Dio. Ogni uomo è mio fratello da accogliere nel profondo del cuore, mettendomi assieme in cammino nella ricerca di una giustizia più grande, un rispetto più autentico e uno sviluppo più solidale.

Lottiamo contro il nemico della speranza, che è quella superficialità e diffidenza che caratterizza tante relazioni interpersonali, avventurandoci in una cultura dell’incontro, a volte carico di incognite. Fermarsi presso qualcuno per conoscerlo, ascoltarlo, scoprire come vive, comporta molto tempo e pazienza, osservazione e condivisione. E, oggi, tutto questo è messo in discussione dalla fretta, dalla mobilità, dal bisogno di collezionare esperienze che non sempre favoriscono rapporti sereni e duraturi. Ma poi, ricordiamo che la relazione con l’altro si gioca attraverso lo sguardo, porta aperta o chiusa per coloro che incontriamo. È grande la differenza tra uno sguardo frettoloso e sbrigativo, spesso formale e infastidito, e uno intenso, attento, appassionato e accogliente, che diventa gentilezza nel tratto, attenzione a non ferire con le parole e gli atteggiamenti.

In realtà, dal nostro sguardo dipende la solidità e la bellezza della creazione e della democrazia, due segreti per una legalità forte e significativa.

Il primo invita a guardare più in là verso l’essenziale della vita, cercando un altro tipo di progresso, più sano, più sociale e integrale. Solo così potremo iniziare un processo di risanamento delle relazioni con la natura. Non può esserci autentico rispetto per l’ambiente, se prima non ve n’è per l’umano, per chi è ferito nella dignità a causa di condizioni di esistenza disumane. Una nuova alleanza tra uomo e ambiente potrà realizzarsi se ci convinciamo che il dominio, il potere, l’accumulo e il consumo non bastano per dare senso e gioia al vissuto. È unico il grido del pianeta e quello dei poveri, per cui accogliere chi è in difficoltà contribuisce alla cura del creato e allontana sfruttamento e ingiustizia.

Anche la democrazia trova nella fraternità nutrimento e vitalità. Essa, infatti, non è mai una conquista definitiva, tanto che quando si distrugge la cultura dell’incontro, si mette in discussione la sua esistenza. L’uomo non può essere un soggetto autonomo che sceglie di fare ciò che vuole senza nuocere ad altri, oppure anche danneggiandoli, gestendo egoisticamente la propria vita.

Lasciarci attraversare, smuovere, plasmare dal desiderio di felicità che ci accomuna tutti e che non è desiderio di possesso o di consumo, ma di libertà e verità.



Vincenzo Pelvi