INTERVENTI
Convegno su Giuseppe Di Vittorio
presso l'Università degli Studi di Foggia
(pubblicato il 05-11-2024)
Buongiorno. Colloco il mio intervento in un contesto che esula dalle mie funzioni di vescovo. Ma ho tenuto a parteciparvi perché la figura di Giuseppe Di Vittorio ha ancora molto da dire nel nostro territorio. Mi scuserete dunque di non addentrarmi nei risvolti umani e politici della sua opera perché non ne ho la competenza. Quello che però posso dire è che oggi tante questioni da lui poste sono ancora attuali. E per fare questo intervengo sulla questione migratoria e i suoi risvolti in terra di capitanata e più in generale nel nostro Paese.
Jerry Masslo, giovane immigrato, fuggito dal Sudafrica nel tempo dell’apartheid, ucciso il 29 agosto del 1989 a Villa Literno perché aveva rifiutato la logica dello sfruttamento, diceva “Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato, e allora ci si accorgerà che esistiamo”.
Il 3 ottobre, le diocesi di Capitanata e le Caritas diocesane, si sono unite e con la Comunità di Sant’Egidio hanno organizzato, a Borgo Mezzanone, una preghiera per le molte vittime dello sfruttamento, del caporalato e dei viaggi della speranza.
Quest’anno ricorrono 11 anni dalla tragedia del 3 ottobre 2013. Morirono – è doveroso ricordarlo- 368 persone. Sembrò, in quei mesi, che l’opinione pubblica e la politica si fossero fermati a riflettere davanti a quelle terribili morti ingiuste, causate dalla “globalizzazione dell’indifferenza”, come la definì Papa Francesco.
Nella nostra Capitanata, com’è noto, sono presenti insediamenti informali di immigrati, chiamati ghetti, dove vivono in condizioni inumane migliaia di immigrati. Visitando il maggiore tra questi, Borgo Mezzanone, che appare come una baraccopoli africana, la prima cosa che colpisce è la mancanza di donne e bambini. Negli slums africani è tutto uno scorrazzare di bambini, vera ricchezza di quel continente. Ma nel Borgo la famiglia è assente. I tanti giovani (almeno duemila residenti, ma il numero è molto maggiore nelle stagioni di raccolta dei pomodori) hanno volti tristi, stanchi, segnati dal sole e dalla fatica. Lavoro spesso sfruttato e povertà sono quello che hanno trovato in Italia. Molti di loro hanno tagliato i ponti con le loro famiglie perché si vergognano di raccontare alle famiglie a casa la vita che fanno qui. Sottopagati, sfruttati in lunghe ore di lavoro sotto il sole cocente estivo, mantenuti nell’illegalità, sono necessari all’economia della nostra come di altre provincie italiane, ma pochi diritti vengono loro riconosciuti. Le leggi ci sono. Penso ad esempio alla legge n.199 del 2016 che denuncia lo “sfruttamento del lavoro in agricoltura”. Queste leggi vanno fatte rispettare.
Il 19 giugno di quest’anno la morte di Satnam Singh, nelle campagne di Latina, ha giustamente fatto scalpore e suscitato un rinnovato dibattito su questo tema, ma sappiamo bene che anche in Puglia lo sfruttamento è un fenomeno sociale, duro da sradicare, che ha già prodotto molte vittime. Penso a Paola Clemente, morta di fatica sotto il sole cocente di una infuocata estate foggiana il 13 luglio del 2015 e molti altri che abbiamo ricordato il 3 ottobre nella veglia.
Che fare? Possiamo nella terra di Giuseppe Di Vittorio, gigante dei diritti umani dei lavoratori, accettare in silenzio che continui tutto questo?
Con i fondi del PNRR si stanno progettando nuovi insediamenti per i migranti. 115 milioni sono quelli destinati alla nostra provincia. Dobbiamo lavorare per non sprecare questa occasione. Ma non basta. Il rischio è di costruire dormitori per “una forza lavoro”, come si è sempre detto: “braccia per l’agricoltura”. Dobbiamo fare di più. Bisogna trovare soluzioni. La prima è la regolarizzazione di chi viene in Italia per compiere lavori di cui abbiamo estremamente bisogno e di cui non si trova in Italia la manodopera: è nell’irregolarità e nella precarietà che maturano drammi come quello di Satman. Le vie legali per l’immigrazione vanno allargate. È anche il bisogno della nostra società, delle nostre famiglie e imprese. Abbiamo visto, anche qui a Foggia, come i corridoi umanitari, che consentono ingressi regolari, abbiano garantito l’integrazione dei migranti.
Dobbiamo impegnarci nella costruzione di una società più umana ma anche più legale, dove il lavoro nero e di conseguenza i caporali, le mafie, hanno meno margine di manovra. Dobbiamo tutti credere in un patto di legalità per questa terra.
Mi sembra che il grande tema dell’immigrazione ci chieda di fare la cosa giusta: l’accoglienza e l’integrazione. L’accoglienza è un centro di ospitalità, è una scuola di lingua, è una mensa ma l’accoglienza è anche un gesto concreto, è un modo di porsi, è una parola, è un modo di vivere. L’accoglienza la si può insegnare ai nostri giovani. L’accoglienza è il vero, l’unico, antidoto alla paura, all’inerzia, al pessimismo. L’integrazione è guardare all’altro con interesse, con la curiosità di chi non si chiude ma si apre alla diversità e la vede come arricchente. La nostra identità si costruisce nelle sperienze, nelle relazioni, nell’apertura a ciò a cui non apparteniamo per nascita. L’integrazione è la vera via umana di crescita di una persona e di una nazione.
La Chiesa fa la sua parte, anche se c’è da capire meglio e di più come sottrarre persone allo sfruttamento e inserirle in processi di integrazione. Anche noi siamo talvolta refrattari all’integrazione nelle nostre comunità. È l’abitudine a vedere i poveri come utenti della nostra carità e non come sorelle e fratelli con cui vivere, costruire la fraternità. Sì, perché la questione dell’integrazione si lega a quella del convivere. Vivere insieme tra persone che vengono da contesti, paesi, lingue, culture, religioni diverse. L’accoglienza è una porta aperta ma poi resta il problema di una vita da costruire insieme. E dopo il primo passo resta da costruire un tessuto umano fatto di relazioni, di incontri, di scambi di conoscenza, et. Più della metà degli stranieri che sono in Italia, vivono qui da prima del 2005. Io, quindi, la domanda la porrei così: È possibile non convivere?
Gli stranieri non sono una forza lavoro necessaria nel nostro paese: per noi sono uomini e donne, fratelli e sorelle. Mi sono convinto nella mia esperienza di missionario in Mozambico - dove io ero lo straniero… - che il convivere sia un bisogno primario come lo è il comunicare. La convivenza serve per vivere come il pane. Quando parliamo delle persone immigrate questo lo abbiamo chiaro. Ho visitato recentemente il CPIA di Foggia (Centro provinciale per l’istruzione per adulti), e lì ho sperimentato la gioia e la gratitudine di chi è aiutato gratuitamente a studiare e avere un futuro. È quella domanda di integrazione che tutti noi leggiamo chiaramente in tanti nostri amici stranieri. Ma gli italiani hanno chiaro che quello della convivenza non è solo una concessione agli altri ma è un bisogno primario anche per loro? Necessario e indispensabile per vivere?
Ci siamo resi conto ad esempio che l’accoglienza, il convivere può essere una soluzione all’inverno demografico del nostro paese? L’antidoto alla lenta morte dei nostri paesini? Credo che, al di là di slogan e riflessioni superficiali, dobbiamo molto riflettere su questi temi.
Per questo vorrei concludere con una riflessione circa l’accesso alla cittadinanza italiana, in particolare per i minori. In Italia al gennaio 2024 gli stranieri residenti tra gli 11 e i 19 anni sono poco meno di mezzo milione e rappresentano il 9,7 % del totale dei ragazzi di questa fascia di età, la più rappresentata delle altre fasce di età degli immigrati. Ciò dimostra la grande stabilità raggiunta dalla popolazione immigrata e l’apporto specifico dei giovani. Del resto degli immigrati regolarmente presenti sul territorio nazionale, il 66% è titolare del permesso come lungo-soggiornanti e questo costituisce un indiscutibile indice di stabilità.
A fronte di questa realtà, le condizioni di accesso alla cittadinanza, sia per gli adulti che per i minorenni, risultano in Italia del tutto anacronistiche, a maggior ragione se confrontate con il quadro europeo.
In ogni caso i minori, “nuovi italiani”, condividono con i bambini e i ragazzi della loro età - già italiani per nascita o origine - gli impegni, i desideri, i problemi, i sogni, le mode e le angosce di una cittadinanza in formazione, affidata per la sua piena riuscita agli adulti di oggi.
Questi ragazzi parlano l’italiano meglio della lingua del paese di origine, che in molti casi nemmeno conoscono. La loro inflessione dialettale è veneta in Veneto, pugliese in Puglia; e l’Italia è l’unico Paese nel quale possano davvero identificarsi, a condizione che non ne siano tenuti ai margini. Questi giovani si sentono italiani. Quando ne incontro qualcuno nelle parrocchie o a scuola, devo fare attenzione nel chiedere “tu da dove vieni?”, perché ti guardano strano e ti rispondono: “da Foggia”.
Miriam Silla, medaglia d’oro alle olimpiadi di Parigi, nasce a Palermo da una coppia senegalese, il padre era emigrato per primo per motivi di lavoro, si era poi ricongiunto alla moglie; nel difficile inizio di questo percorso avevano trovato sostegno da parte di una coppia di palermitani. Miriam era cresciuta, bambina in una famiglia allargata, accudita anche da quelli che ha sempre continuato a considerare i suoi nonni. Diventa cittadina italiana ancora minorenne, dopo che il padre ottiene la cittadinanza per naturalizzazione.
Alla domanda di cui sopra, Miriam risponde: “Integrarsi? Ma integrarsi con chi? Io non devo integrarmi da nessuna parte, sono nata e cresciuta in questo paese, questa è la mia cultura”.
I “nuovi italiani” rappresentano, indubbiamente, una grande possibilità di sviluppo per il nostro Paese, il quale a tutt’oggi attraversa una fase molto pronunciata di invecchiamento, ma potrebbero anche costituire un problema se il sentimento di appartenenza alla società italiana non verrà assecondato, sostenuto e radicato in loro con le opportune iniziative, sia oggi che negli anni a venire.
Corrisponde dunque al comune interesse di tutti – antichi e nuovi italiani – che l’appartenenza di questi bambini e giovanissimi alla comunità nazionale sia rafforzata e confermata dal riconoscimento pieno e formale della cittadinanza.
Concludo: quello che ci unisce oggi qui è il sogno di una società più accogliente e umana, il sogno di grandi patrioti come Di Vittorio. Credo che davvero sia nelle nostre possibilità. Guardiamo al futuro con intelligenza e costruiamo una nazione più bella perché più arcobaleno.