OMELIE

Cio' che non si ama, stanca

Omelia di Mons. Ferretti del 12-04-2017

Omelia per la Messa Crismale
Carissimi fedeli, cari sacerdoti e diaconi, ringrazio il Buon Pastore per la gioia spirituale che dona a tutti noi in questo momento sacramentale, nel quale facciamo memoria del sacerdozio, esprimendo visibilmente la grazia della comunione presbiterale. Saluto S. Ecc.za Mons. Francesco Pio, il Vicario generale, i Vicari episcopali e zonali. Rivolgo un pensiero riconoscente ai sacerdoti ammalati, anziani, e a coloro che, pur non avendo più le energie fisiche per l’esercizio ministeriale, restano guide sagge e luminose della nostra Diocesi. Non posso, poi, dimenticare i confratelli che hanno lasciato questo mondo e ci sostengono con la loro intercessione celeste. Nella celebrazione di stasera, ritrovo con voi la gioia di essere sacerdote. Ogni volta possiamo fare veramente nostre le parole di Gesù: Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi. È il senso della nostra vita; sono le parole con cui, in un certo modo, possiamo rinnovare quotidianamente le promesse dell’Ordinazione. Grazie per il vostro e per i tanti nascosti, che solo il Signore conosce. Lasciamo che ancora una volta Gesù chieda: Mi ami tu? Mi ami veramente? Questa domanda non indaga sulle nostre competenze e abilità, ma immerge in quell’entusiasmo e incanto della prima volta, di chi lascia tutto e si affida ad una relazione insostituibile. Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene. Non esiste un ministero che non sia sostanziato dall’incontro con Gesù, dal rimanere in Lui, certi che Egli ci sostiene nelle responsabilità, moltiplicando le forze e le speranze. Purtroppo, l’avvicendarsi delle stagioni può rendere il sacerdozio come qualsiasi mestiere, con il vuoto del desiderio di una sequela fedele a cui segue la mancanza di un dialogo orante con il Signore e l’avidità del cuore che rende ogni difficoltà una barriera insuperabile. Senza un sano equilibrio di preghiera e apostolato, come di riposo e lavoro, si rimane esposti all’urgenza del momento, cogliendo le richieste più improprie e respirando quell’aria di rassegnazione che non solo spaventa, ma ci chiude nelle nostre sacrestie e apparenti sicurezze. Ci si difende, così, dietro le credenziali del ruolo che ricopriamo, aggrappandoci a stili di mondanità o a forme di rigidità incomprensibili. Tra noi sacerdoti, accanto a una quotidiana e instancabile generosità, è presente qualche aspetto di tristezza, di scoraggiamento e insofferenza che diventano sterile e pungente polemica. Come afferma Papa Francesco: ciò che non si ama, stanca. Spendersi senza donarsi è sintomo di generosità, ma non è garanzia di quella libertà interiore che lascia il posto alle sorprese dell’amore di Dio. Nello scorrere della vita di un prete, che ha deciso di perdere se stesso per il Vangelo, non c’è automatismo tra chi ha scelto il Signore e un crescendo di comunione con Lui; tra le tappe ufficiali (scelta vocazionale, nuove responsabilità, impegno in settori e contesti variegati) e una reale assimilazione del cuore alla logica divina. Dobbiamo divenire discepoli nel tempo, nella ferialità, nei luoghi più comuni, nelle vicende apparentemente più inquietanti perché tutto dispone all’avvenimento della grazia che proviene dal Signore. Mai permettere che il tempo diventi usurante del nostro ideale di vita. Con il passare dei giorni e la maturità degli anni, infatti, può sorgere un compromesso tra le esigenze soprannaturali della consacrazione e quella della nostra personalità di uomini adulti. Ma proprio nei momenti critici dell’esistenza sacerdotale, Gesù attende da noi una nuova partenza, secondo lo spirito e la fede, verso un modo nuovo di essere poveri, obbedienti, casti, caritatevoli. La fedeltà è sempre più un dono da domandare, che un vanto da esibire. Ciascuno esamini se stesso e rifletta sui tentativi di riprendersi, forse in parte o inconsapevolmente, qualcosa di ciò che aveva offerto con gioia al Signore. A riguardo, il Beato Paolo VI, in una lettera ai sacerdoti di Milano, in occasione della Settimana Santa del 1959, richiamava: Il calcolo del minimo sforzo, l’arte di evitare le noie, il sogno di una solitudine dolce e tranquilla, la scusa della propria timidezza, l’incapacità sorretta dalla pigrizia, la difesa del dovuto e non più, gli orari protettivi della propria e non dell’altrui comodità. Non è più il tempo – ammesso che lo sia mai stato – di uno stile impiegatizio, con orari e programmi che non incontrano i reali bisogni della gente, uno stile favorito dalla sicurezza dello “stipendio garantito”, che potrebbe non aiutare a raccontare di essere uomini di fede che si fanno carico della fede dei fratelli. Mi rendo conto che complice di questa situazione è l’amministrazione dei beni ecclesiastici, sottoposti ad una normativa civilistica complessa e alla mancanza di risorse economiche per far fronte alla manutenzione del patrimonio immobiliare. Eppure non si può separare la dimensione amministrativa da quella pastorale, con il rischio o di derive spiritualistiche o di modalità commerciali di gestione dei beni ecclesiastici. E qui l’invito a riprendere fra le mani il documento della Conferenza Episcopale Italiana dal titolo Sovvenire alle necessità della Chiesa, dove vengono indicati i criteri per un’amministrazione davvero ecclesiale. L’attaccamento al danaro è la radice di tutti i mali e soprattutto nell’odierno contesto di povertà sociale, la testimonianza sacerdotale è persuasiva e ridona credibilità all’annuncio evangelico. Tale testimonianza ha come criterio di verifica una diligente e trasparente amministrazione dei beni ecclesiastici, che non è soltanto un fatto tecnico, ma è frutto di un’ascetica personale solida. Anche la gestione dei beni della Chiesa, è autentica dimensione di carità pastorale, perché sull’amministrazione dei beni ecclesiastici c’è il sacrificio, le lacrime, il sudore e il sangue del popolo di Dio, dalla cui carità questi beni provengono. Come insegna Origene: Affrettiamoci a passare dai sacerdoti del faraone, che hanno un possedimento terreno, ai sacerdoti del Signore, che non hanno porzione sulla Terra, ma la cui porzione è il Signore. Amministrare è un’arte che sa esercitare solo chi si lascia guidare sia dalla logica evangelica del dono, sia dalla consapevolezza che il criterio principale di valutazione delle strutture pastorali non è la redditività, ma la corrispondenza alla missione della Chiesa, tenendo lo sguardo rivolto a Cristo e l’orecchio aperto alla sua Parola e attento alla voce dei poveri. Ripensare l’economia vuol dire servirsi del denaro senza diventarne schiavi, ma sapendolo investire per sostenere i bisognosi di conforto e di aiuto. «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Questo severo ammonimento non ammette eccezioni, ma non tollera giustificazioni, soprattutto quando vengono avanzate da chi, pur avendo lasciato tutto per seguire il Signore, a poco a poco osa pretendere gli interessi, non sapendo più discernere quale sia il tesoro che fa battere il suo cuore. Come ha ben sintetizzato Mons. Gualtiero Sigismondi, Vescovo di Foligno e Assistente Nazionale di Azione Cattolica, nel recente Convegno dei Presidenti degli Istituti Diocesani per il Sostentamento del Clero: «Accumulare è un’insidia che, nella vita di un prete, può avere diverse “varianti”:
- c’è chi accumula pensando alla vecchiaia, perché non si sente in famiglia nel presbiterio diocesano;
- c’è chi accumula ignorando che la cassa parrocchiale non ha vasi comunicanti con la propria tasca;
- c’è chi accumula lasciando al successore l’onere della manutenzione della chiesa e della canonica;
- c’è chi accumula vivendo da miserabile, dimenticando che tarme e ruggine consumano i suoi beni;
- c’è chi accumula mantenendo un tenore di vita che non osserva l’unità di misura della semplicità;
- c’è chi accumula dimenticando che Dio Padre “nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo”;
- c’è chi accumula negando la “decima” ai poveri, che hanno diritto di prelazione sui suoi beni».
Siamo capaci di amore puro o, invece, siamo soltanto dentro un registro commerciale di dare-avere? Si comprende, così, come l’insegnamento di Papa Francesco sia un costante richiamo a ritornare alla povertà evangelica e a un rinnovato impegno non solo a servire i poveri, con i quali il Signore ha voluto identificarsi, ma anche a imparare dalla loro cattedra, tenendo fisso lo sguardo su Gesù: «da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (cf. 2Cor 8,9).
Signore, mio Dio, mia unica speranza,
ascoltami benevolmente, non permettere che desista
dal cercarTi per stanchezza, ma sempre cerchi il tuo volto con ardore.
Dammi Tu la forza di cercare, Tu che ti sei fatto trovare
e mi hai infuso la speranza di trovarti
con una conoscenza sempre maggiore.
Davanti a Te è la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa.
Davanti a Te è la mia scienza e la mia ignoranza;
laddove mi hai aperto, accoglimi quando entro;
laddove mi hai chiuso, aprimi quando busso.
Fa’ che io mi ricordi di Te, che comprenda Te, che ami Te. Accresci in me questi doni, finché non mi abbiano trasformato completamente in creatura nuova

(S. Agostino)
La Vergine Maria, Madre dei sacerdoti, preghi con noi e per noi.